Col secondo capitolo si chiude il dittico di Phillips dedicato al maggiore antagonista di Batman, personaggio peraltro assente dai due film se non con un accenno, non molto positivo, alla famiglia Wayne nel primo capitolo.
Costruito sulla falsariga del Re per una notte di Scorsese, mutuandone il protagonista De Niro nel ruolo che echeggia quello che era Jerry Lewis e narrando una simile fallimentare ambizione da comedian con risvolti criminali (l’omicidio al posto del semplice rapimento) degni di Taxi Driver, di cui diventa una versione ‘mascherata’, il seguito sembra invece rifarsi, volendo mantenere un modello scorsesiano, a New York, New York, con il sottogenere del musical virato in forma realistica e psicanalitica in un rapporto di coppia che da idilliaco si fa travagliato, e un accenno a Fuori Orarioper l’incapacità di controllo degli eventi del protagonista.
Ed è tutta nella scissione della personalità di Arthur Fleck l’accurata ricerca registica di Phillips, attento alla variazione di formato per seguire i momenti di realismo e distinguerli da quelli fantastici passando dallo scope al panoramico, dalla cura fotografica con i toni che rimandano al verde e al viola del costume di Joker, il gioco sulla messa a fuoco e sulla profondità di campo, con tutti gli angoli dello schermo sfruttati come significanti in una complessa articolazione tra primo piano e sfondo, tra campo e fuori campo, tra verità e illusione. In questa prospettiva di schizofrenia palese si inseriscono le canzoni, quasi tutti classici americani (anche se spicca Ne me quitte pas nella traduzione inglese) riletti in versione crooner disagiato, che punteggiano con numeri da cabaret o da varietà televisivo vintage (l’ambientazione rimane negli Anni 70) le varie fasi della dissociazione di Arthur e del suo rapporto col Joker con la sua ammiratrice e amante.
Molto più cupo e circoscritto del precedente, il film è quasi tutto ambientato tra il manicomio carcerario e l’aula di tribunale dove si decide il destino del criminale reo confesso, con la difesa che vorrebbe dichiararlo scisso in due personalità indipendenti e l’accusa che ne giudica obiettivamente gli atti, mentre lui stesso cerca di capirsi. Arthur, sollecitato dalla complicità di Harleen Quinzel, l’Harley Quinn del fumetto, interpretata da Lady Gaga che canta e balla con lui, mentre la sua mente oscilla tra la maschera e l’allucinazione, tra la tristezza e la rabbia, l’amore e l’esaltazione. That’s Entertainment, si canta a più riprese, ed è uno spettacolo che Arthur e il Joker inscenano per trovare un senso e darsi un significato, mentre attorno a loro deflagra l’entusiasmo per le gesta di un antieroe mascherato, un criminale parodico che deride il sistema e lo corrode dall’interno.
Ma, in fondo, Arthur Peck è solo un omino triste, affetto da una risata nervosa e irrefrenabile, quindi insensata, e forse Joker esiste solo per nasconderlo, non per definire un alter ego sopra le righe e larger than life, un esempio di criminale sopraffino e raffinato. E dopo il primo film, che sembrava ricostruire la genesi di un antagonista, la sua conclusione in questo capitolo rivela che non abbiamo assistito alla nascita di una nemesi ma alla costruzione, involontaria, di un mito, che può prescindere dalla persona che lo ha inscenato e avviato, mentre la parabola ascendente del Joker discende nella paura di Fleck e nel terrore terminale di essere solo un fallito, anche se il mondo attorno a lui esplode, letteralmente, in suo nome. Joker è un appellativo in cui, dopotutto, non si riconosce perché non ha mai fatto davvero ridere nessuno e da cui vuole, infine, fuggire. Mentre sullo sfondo, fuori quadro, fuori campo e fuori fuoco, nasce forse il vero personaggio. Allo stesso modo il Phillips sembra volersi lasciare alle spalle la carriera di regista di commedie demenziali per ridefinirsi autore cinefilo, attraversando e superando lo stesso filone supereroistico in cui era entrato per concludere un ritratto ‘in noir’ e smorzare sulla tela dello schermo i colori troppo accesi delle tavole disegnate, ricongiungendosi ad esse con un fermo immagine che ne fissa l’immobilità nella morte.
In questo epilogo, disilluso e tragico, il film ripete passo dopo passo il migliore twist della serie Gotham (II stagione, episodio 3), con la costruzione di un perfetto Joker che non è altro se non l’innesco di un’eco criminale che supera l’identità anagrafica per spostarla nell’orizzonte della leggenda, o della pagina, sempre al presente, del fumetto.
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