sabato 17 maggio 2025

Black Bag – Doppio gioco di Steven Soderbergh


Sono troppo forti le luci negli interni di Black Bag, fonti luminose quasi accecanti e sproporzionate rispetto al chiaroscuro della fotografia e della scenografia, isole di bianco su un tessuto cromatico tendente al rosso e al nero, punti ciechi per la troppa evidenza. La Red con cui Soderbergh gira in leggerezza questo thriller spionistico, rende artificiali uffici e case, troppo freddi o troppo calde, mentre si mimetizza con i colori naturali degli esterni, nelle nebbie lacustri o nelle riprese cittadine.

Giallo della macchinazione, il film sembra divertirsi a ingarbugliare matasse hitchcockiane, tra Topaz e Intrigo internazionale, su una base da commedia del rimatrimonio tra due [spooks], con infidi compari che si dichiarano amici, mescolando influenze televisive recenti come Slow Horses (pugnalate tra colleghi della stessa agenzia segreta) o Mr & Mrs Smith (interni di sopraffina eleganza domestica e tensioni amorose contrapposte), che è poi anche un titolo di una commedia di Sir Alfred.

Anche nella scelta degli interpreti, al di là delle rispettiva qualità, Soderbergh sembra giocare di rimandi e citazioni, tra The Agency e Disclaimer (le cucine delle case, nella serie e nel film, hanno le medesime proporzioni), rispettivamente serie di spionaggio e di inganno, e se Fassbender pare richiamare graficamente il Caine di Ipcress e l’aplomb bondiano del prologo di X-Men L’inizio (così come la maniacale precisione del Killer di Fincher) nel ruolo del detective delle menzogne (con tanto di poligrafo) e indagatore dell’ordito, rigoroso fino all’ossessione compulsiva, recita in sottrazione, mentre Blachett ripropone l’eleganza sofisticata di molti suoi personaggi, ma con un make-up troppo evidente e marcato (viene ripresa più volte a truccarsi) e gioca con un leggero e ironico overacting posh che insidia la veridicità del personaggio, mantenendolo nel limbo dell’incertezza.

Se il tono del film si fa cupo, con tre coppie (e qualche aggiunta) in svariati abbinamenti relazionali, tra amori consumati o provocazioni accennate di rapporti maritali, amichevoli o sessuali e, soprattutto, lavorativi, è perché in gioco c’è, letteralmente, la sopravvivenza, anche se i modi rimangono quelli della commedia sofisticata e delle scaramucce verbali che, tra affondi e confessioni, accuse e ritirate, articolano le scene madri di un film privo di azione ma zeppo di complotti. In questo gioco al massacro tra amanti e spie, assediati dalla retorica del greater good e l’inevitabilità di vittime collaterali e con la presenza di ex-Bond (Brosnan) refrattario alla pensione, l’azione latita e si perde,come un McGuffin , tra le pieghe di una trama assai parlata.

Perché, in fondo, Black Bag è fatto tutto di inquadrature di raccordo, sottolineate dal jazz dolce e atmosferico che rimanda agli heist-movie o a Out of Sight con Clooney, pellicole divertite e di giocoso intrattenimento, scene di riempimento per braccare, forse, la verità, ma tracciandola inseguendo i soldi, come sempre (e il dialogo finale, in fondo, rimanda a quelle rapine bene articolate, in cui il denaro era solo il risarcimento per un sopruso), sinonimo di potere e di alterazione della verità, come e più delle parole, che tutto vogliono ridefinire e spiegare mettendo gli eventi nell’ordine che la narrazione aveva confusamente affastellato saltando proprio le scene esplicative. Perché, in effetti, sono i raccordi a contare, a contenere la spiegazione e la sua manipolazione, l’evocazione più del fatto in sé, l’affabulazione invece dell’evento narrato, il movimento da e verso qualcosa o qualcuno, una scena o un personaggio.

Imprigionandoli del loro stile, elegante e rilassato, il film e Soderbergh fanno perdere agli spettatori i riferimenti offrendogliene troppi: troppa trama, troppi inganni, tante citazioni, molti riferimenti, parole e musiche, luci e ombre. Tutto infine diventa evanescente, come quei chiarori esagerati, i ruoli sono fantasmi, il film un gradevole gioco al massacro che dissacra il cinema nel suo fondamento di coinvolgimento diretto, nella necessità dell’identificazione e dell’empatia e invece optare, come i protagonisti, per la logica del disinganno, la destrutturazione dell’apparenza al fine di decodificare i fatti e il loro significato, in un puro gioco mentale, necessariamente formale e disincarnato.

Soderbergh, in fin dei conti, applica con voluta ironia al film il titolo e la caratteristica del codice di riferimento, quel “Black Bag”, spesso ribadito in scena, ossia di una verità celata e omessa, un mistero necessario, sinonimo dei più vulgati “Top secret” o “Your Eyes Only”: perché non tutto è noto e il senso è riposto in chi legge e vede, e bisogna accontentarsi di brandelli evanescenti di una realtà fuggevole per cercare di capire e per non soccombere.

domenica 11 maggio 2025

Kraven – Il cacciatore di J.C.Chandor


Sembra un risultato spurio del multiverso del MCU, con cui è imparentato, questo ultimo film legato al mondo dei nemici di Spiderman senza il protagonista, operazione di per sé già discutibile e che riesce, a ogni tentativo, a sprecare un ottimo materiale di partenza per costruire personaggi non del tutto negativi, ovvero supereroi che uccidono. Ma è un inconsapevole gioco di specchi deformanti che costruisce una trama parallela del film, con attori che provengono da altri ruoli e, letteralmente, da altri mondi, narrativi o meno, rivestiti degli abiti di un nuovo personaggio, in fondo intercambiabile. Così Aaron Taylor-Johnson, dopo essere stato il giovane Kick-Ass è diventato il non-mutante Quicksilver (per diritti non ancora acquisiti dalla Marvel), mutato artificialmente anche nel nome diventando il superveloce Pietro Maximoff degli Avengers. Russel Crowe, ormai figura paterna per eccellenza, sebbene non priva di difetti, dopo Jor-El, il genitore di Kal-El alias Superman (versione Snyder), è stato il lubrico e irascibile über-Dio Zeus in Thor: Love and Thunder. In questa selva di ricorrenze e sovrapposizioni, i due adesso sono padre e figlio, i cacciatori e mafiosi russi Kravinoff nonché nucleo emotivo e psicanalitico di un film tutto costruito sugli irrisolti traumi causati da un genitore manipolatore a una prole renitente al destino prescelto.

Da qui si sviluppa un banale film d’azione che rovina un personaggio composito e complesso come quello di Kraven, avversario ricorrente di Spiderman che, negli albi, vorrebbe catturare per includerlo nel suo zoo personale di conquiste animalesche e destinato a una fine perturbante, eroso dalla malattia in un ciclo di fumetti di notevole efficacia e forza. Non si può dire lo stesso del film che, dopo una partenza sostanzialmente interessante con un’esecuzione siberiana che ridefinisce il personaggio come sicario benevolo intento a eliminare pericolosi criminali, si riduce a ricucire i contorni del cacciatore come schiavo dei propri legami familiari, introducendo e sprecando altri noti antagonisti del Ragno: Rhino, subito sconfitto; il camaleonte, destinato a ulteriori sviluppi; lo straniero, dai poteri inspiegabili (e grosso vuoto di sceneggiatura.

Solo alla fine Kraven troverà il giubbotto dal collo di pelliccia (ma non le caratteristiche pantofoline da danza) che ricompone l’iconografia del personaggio e lo renderà (assieme ai baffi) graficamente un alter ego di Freddie Mercury, con molte implicazioni camp.

Il film, dopo un paio di belle scene d’azione, un movimentato inseguimento londinese e l’esecuzione nel carcere russo, viene attraversato da un protagonista molto bravo nel flettere gli addominali, sempre di corsa e molto corrucciato, ma si perde nel ricucire le fila della trama, tra incantesimi e maledizioni familiari, superpoteri e pozioni, mafia russa e connivenza economica. Poco convinta del materiale, la produzione sembra avere sabotato le intenzioni di Chandor, autore altrove di un certo interesse (All Is Lost1981: Indagine a New York), con rielaborazioni grafiche poco curate, scene piene di errori (il safari iniziale), mentre il regista sembra voler portare il film verso una fisicità (come nei Bond di Craig) che qui emerge solo a tratti, sia negli sforzi di Kraven, che corre a piedi nudi dietro alle macchine e si arrampica senza ausili sui palazzi, sia nel fatto tutti i superpoteri provengono dalla alterazione dei corpi attraverso soluzione chimiche o mistiche.

In effetti la trasformazione del fisico, con le sue nefaste conseguenze e responsabilità, costituisce il nesso principe tra Spiderman e i suoi antagonisti, nemesi somiglianti nel ritrovarsi cangianti e potenti, opposte nel veicolare le acquisite doti verso intenti egoistici o altruistici. Venendo meno il referente comparativo, il senso dei film dello Spiderverse si smarrisce in pellicole d’azione che si inseriscono confusamente nel filone supereroistico senza senso né destinazione, tra la trilogia sconclusionata di Venom o la tetra sofferenza vampiresca solipsistica di Morbius, così come la farsa da teen-drama in vacanza di logica di Madame Web e dello stesso Cacciatore con i suoi compagni d’avventura, tutti costretti a fare i conti con un corpo che cambia e con il suo inserimento ai margini della società verso una nuova logica di convivenza.

Privi del contrappeso dell’eroe buono, tutti questi film si limitano a definire contesti divergenti per personaggi smarriti ma non cercano mai di rielaborare il concetto di supereroe, travolti dall’azione per riempire il minutaggio e, soprattutto, rimangono tristemente privi di direzione nel concepire un senso di regia nel progetto, sia del singolo film che complessivo, sprecando un intero immaginario.

giovedì 8 maggio 2025

Captain America – Brave New World di Julius Onah


Film di transizione, verso un futuro migliore delle deludenti aspettative del ciclo sul multiverso, ovvero la Fase 5 del MCU, la prima avventura del nuovo Capitan America è un sequel cinematografico di Endgame (2019) e televisivo di The Falcon And The Winter Soldier (2023), secondo quell’integrazione ormai perfetta tra piccolo e grande schermo voluta da Disney e che vede alla sua confluenza il canale in streaming Disney+.

Ma non è facile tornare in sala, anche per un supereroe, dopo essere stati visti in tv, e nemmeno il titolo di novello capitano americano non è stato sufficiente a richiamare la moltitudine di spettatori degli Avengers. Ed è anche in quest’ottica di ritorno dei Vendicatori che il film con Falcon e lo scudo si rivela di transizione, evocandone in chiave minore i fasti ma permettendo al personaggio, tramite il nuovo Presidente che lo informa della sua intenzione di riformare il gruppo, di farsene precursore. Nel frattempo, però, gli Avengers sono stati decimati, dato che praticamente ogni capitolo aggiuntivo a Endgame è servito a congedarsi di almeno uno dei vecchi eroi mascherati, e il riscontro del pubblico si è fatto sempre più flebile.

Il nuovo Captain America, come vuole la tradizione del personaggio, si trova alla confluenza tra azione e spionaggio, tra spirito patriottico e ubbidienza, sempre in lotta tra dovuta fiducia e iniziativa individuale. Alla solarità di Steve Rogers, figlio degli Anni del New Deal, si sostituisce la consapevolezza anche razziale di Sam Wilson (e del regista), molto più critico nei confronti di ogni ordine impartito dall’autorità, soprattutto se incarnata da un militare forsennatamente avverso ai supereroi come Thaddeus Ross (qui interpretato da Harrison Ford, dopo la dipartita del precedente interprete William Hurt), acerrimo nemico soprattutto di Hulk (temporaneamente indisponibile perché mandato nello spazio nella serie She-Hulk). Ed è proprio al primo film dei Marvel Studios, all’Incredibile Hulk del 2008 a cui questa pellicola fa diretto riferimento, recuperando anche l’altro personaggio (dopo che il primo avversario del gigante verde, Abominio, era riapparso in She-Hulk), Samuel Sterns, scienziato vendicativo. Eliminato lo Shield e allontanato Nick Fury (nell’omonima miniserie), l’elemento spionistico è costituito dal complotto verso il presidente, legato a un condizionamento comportamentale debitore di molta letteratura e serialità (Alias, ad esempio, da cui proviene l’interprete del supersoldato nero e dimenticato) così come, cinematograficamente, almeno dei dueManchurian Candidate (di cui uno di Jonathan Demme). Ma è strano che la presenza di una Vedova nera (versione ex-Mossad: Sabra) non abbia portato i personaggi a pensare alle antiche tecniche di condizionamento della stanza delle Vedove (cfr Black Widow) e ad arrancare per mezzo film per capire cosa stesse succedendo.

Se Steve Rogers doveva fama e ruolo al siero del supersoldato, che ne ingigantiva le capacità , in questo film (Isaiah Bradley a parte) i supereroi militanti non possono che contare sulle proprie forze, coadiuvate da allenamento e sofisticate armature da combattimento (i due Falcon), oltre al fidato Scudo in Vibranio ereditato dal primo Cap, mentre gli avversari sembrano tutti potenziati (fisicamente o mentalmente) dai raggi gamma, con una discrepanza tra la rabbia del mutato Hulk Rosso e l’agilità del semplice umano rinforzato, mettendo sempre in difficoltà anche la credibilità delle scene.

Nel suo ingrato ruolo di erede designato e prosecutore, il personaggio e il film fanno i conti con l’elemento di continuità con gli Eternals (uno dei minori successi della Marvel tanto da non meritarsi alcun seguito), ovvero l’emergere del corpo di un Celestiale dalla massa terrestre (che avrebbe portato alla distruzione del pianeta, se completato) diventato adesso una nuova isola in mezzo all’Oceano Indiano e oggetto delle mire di molte potenze per la presenza di un nuovo potentissimo materiale (l’Adamantio) di cui l’America si vorrebbe autoproclamare garante e che fa avanzare una trama che, da diplomatica, si fa sempre più militaresca.

Ed è forse in questa veste, geopolitica, nazionalistica e predatoria, che il film riflette una certa attualità, con una modalità che non vuole (per condizionamenti imposti e tempi di produzione) essere critica ma che può diventare metaforica, poiché vedere il presidente neoeletto che distrugge per furia e volontà di potenza l’Ufficio ovale e la Casa Bianca incarna perfettamente il rischio di questa America, rossa di rabbia come le cravatte del Presidente, che si vorrebbe e si proclama di nuovo grande, mentre intimorisce il mondo che la guarda con crescente preoccupazione. Ed è ironico vedere che, parallelamente, sul piccolo schermo, anche la Grande Mela guidata da Wilson Fisk, nuovo sindaco in Daredevil: Born Again, si trasforma nel porto franco di tutte le nefandezze di un criminale mai davvero redento, che sfrutta leggi e potere per garantirsi immunità e guadagno con violenza e prepotenza (un discorso peraltro poi prolungato dall’altra serie Disney+, Andor, facendo riferimento all’opprimente Impero di Palpatine in Star Wars e assumendo il tragico punto di vista dei ribelli di Rogue One).

E, così, l’ultimo Captain America, abbastanza lineare nello sviluppo e piatto nell’esito, che vuole ricucire le fila di una narrazione fin troppo espansa tra i vari lati di uno schermo che smarrisce i suoi sfrangiati margini, con supereroi riluttanti e infine poco convincenti, a loro volta persi tra i risvolti dei riferimenti pregressi, diventa infine un film di transizione tra la finzione e un’inimmaginabile realtà, metafora inquietante di un altro Brave New World precario e rovinoso, in via di definizione.

Conclave di Edward Berger


La struttura di Conclave non è dissimile da quella di una puntata di un procedurale televisivo in cui, alla ricerca del colpevole, l’indagine individua uno o due sospetti per infine scoprire, con un colpo di scena rivelatore, il vero assassino. Allo stesso modo, i cardinali riuniti nel conclave eliminano uno dopo l’altro i migliori candidati, davvero colpevoli di qualche fallo, non proprio veniale, e arrivano alla conclusione di un unico, reale papabile. Con questo andamento uguale e contrario al poliziesco più classico e quotidiano, il film risulta un thriller abbastanza convenzionale e, come tale viene fotografato, con abbondanza di chiaroscuri, misteri e sotterfugi in abbondanza, una ricerca del candidato che si assimila a un’indagine investigativa in cui capire chi sia davvero innocente, senza peccato e adatto al trono pontificio. Il tutto condito da interessanti ed eleganti massime sulla fede, la sua evanescenza, sul dubbio come motore e sull’azione imperscrutabile dello spirito santo che hanno fatto vincere l’Oscar della migliore sceneggiatura non originale al film (su 8 candidature).

Eppure è la regia che dal film emerge, con una recitazione sommessa e concitata al contempo, fatta di un basso continuo di voci sussurrate, interrotto da improvvisi scoppi di ira e di violenza verbale, di esplosioni di umanità latente e dolente. Perché Conclave è un film dalla evidente corporalità, imprigionata dalle forme delle sue stesse geometrie, sia geografiche che morali, ovvero di inquadrature compassate e simmetriche, raggelate su sfondi impassibili e imponenti. Tra la claustrofobia tombale di Santa Marta, dove dormono i cardinali e dov’è morto il pontefice, murati nel marmo di pareti vuote, fino alla dovizia di dettagli e dolore magnificati dagli affreschi della Sistina, i cardinali si muovono come galleggiando su pavimenti istoriati o anodini, assediati da un buio caravaggesco su cui si stagliano, deboli e mortali, intenti a un chiacchiericcio futile e forsennato mentre il nero alle loro spalle sembra in procinto di divorarli.

Nel cercare di stabilire chi tra loro sia il più meritevole, o il meno indegno ad avvicinarsi con migliore sincerità al divino, il corpo dell’erede di Pietro si sustanzia con evidenza, mentre il film tutto è punteggiato da elementi corporei sempre più evidenti, dal cadavere del vicario di Cristo iniziale, reso più umano dalla scomparsa e sballottolato nel suo sacco mortuario, fino al corpo anomalo di un suo successore imprevisto su cui si conclude; è la materia stessa della Chiesa che viene messa in dubbio, soprattutto nella sua eccezione di Curia romana, di corpo travagliato, di ufficio di governo, dedita alla politica e alla convergenza delle divergenze durante l’elezione e le numerose e contraddittorie nomine successive. A fare da contrappunto sonoro alla storia di un corpo, il cui spirito si travasa in un nuovo contenitore umano, ci sono i respiri affannosi e i sospiri, le urla e gli insulti, i rumori della vita e della carne, ben in risalto nella colonna sonora.

Oltre il giallo del minor colpevole E la strategia del miglior candidato, veicolati dal copione, il film vive della sua messinscena, di una reclusione coatta tra pareti troppo spoglie o esageratamente ornate in cui semplici uomini si agitano per carpire un senso che sfugge, addobbati dal rito e dalle consuetudini di un maschilismo imperante in cui il femminile (delle suore, delle amanti, del corpo) è un’eterna minaccia e un’eresia, imprigionati da una tradizione astratta e rigida che impedisce loro letteralmente di vedere il mondo, che diventa, pertanto, estraneo, sino alla violenza della protesta di un incompreso maltrattato.

Il montaggio, preciso e mai voluttuario come nella maggioranza dei recenti film -soprattutto italiani-, alterna dettagli e inquadrature d’insieme, aumentando la claustrofobia di una pellicola con pochissimi esterni, in apparenza concentrata nello svelare un segreto nascosto quando invece avanza nel seguitare le mosse di uno scacchista defunto che aveva ordito e ordinato tutto, lasciando l’illusione di un libero arbitrio. Di questa regia occulta e segretamente ironica, il film mima l’andamento, procede così spedito e perfettamente controllato, sino all’evidenza di una conclusione inscritta nella sua premessa, che lo spettatore laico legge come sceneggiatura di ferro ottimamente illustrata, il credente in Piazza San Pietro, nella finzione come nella realtà che l’ha raggiunta, può rintracciare l’opera imperscrutabile di uno Spirito Santo.