Sono troppo forti le luci negli interni di Black Bag, fonti luminose quasi accecanti e sproporzionate rispetto al chiaroscuro della fotografia e della scenografia, isole di bianco su un tessuto cromatico tendente al rosso e al nero, punti ciechi per la troppa evidenza. La Red con cui Soderbergh gira in leggerezza questo thriller spionistico, rende artificiali uffici e case, troppo freddi o troppo calde, mentre si mimetizza con i colori naturali degli esterni, nelle nebbie lacustri o nelle riprese cittadine.
Giallo della macchinazione, il film sembra divertirsi a ingarbugliare matasse hitchcockiane, tra Topaz e Intrigo internazionale, su una base da commedia del rimatrimonio tra due [spooks], con infidi compari che si dichiarano amici, mescolando influenze televisive recenti come Slow Horses (pugnalate tra colleghi della stessa agenzia segreta) o Mr & Mrs Smith (interni di sopraffina eleganza domestica e tensioni amorose contrapposte), che è poi anche un titolo di una commedia di Sir Alfred.
Anche nella scelta degli interpreti, al di là delle rispettiva qualità, Soderbergh sembra giocare di rimandi e citazioni, tra The Agency e Disclaimer (le cucine delle case, nella serie e nel film, hanno le medesime proporzioni), rispettivamente serie di spionaggio e di inganno, e se Fassbender pare richiamare graficamente il Caine di Ipcress e l’aplomb bondiano del prologo di X-Men L’inizio (così come la maniacale precisione del Killer di Fincher) nel ruolo del detective delle menzogne (con tanto di poligrafo) e indagatore dell’ordito, rigoroso fino all’ossessione compulsiva, recita in sottrazione, mentre Blachett ripropone l’eleganza sofisticata di molti suoi personaggi, ma con un make-up troppo evidente e marcato (viene ripresa più volte a truccarsi) e gioca con un leggero e ironico overacting posh che insidia la veridicità del personaggio, mantenendolo nel limbo dell’incertezza.
Se il tono del film si fa cupo, con tre coppie (e qualche aggiunta) in svariati abbinamenti relazionali, tra amori consumati o provocazioni accennate di rapporti maritali, amichevoli o sessuali e, soprattutto, lavorativi, è perché in gioco c’è, letteralmente, la sopravvivenza, anche se i modi rimangono quelli della commedia sofisticata e delle scaramucce verbali che, tra affondi e confessioni, accuse e ritirate, articolano le scene madri di un film privo di azione ma zeppo di complotti. In questo gioco al massacro tra amanti e spie, assediati dalla retorica del greater good e l’inevitabilità di vittime collaterali e con la presenza di ex-Bond (Brosnan) refrattario alla pensione, l’azione latita e si perde,come un McGuffin , tra le pieghe di una trama assai parlata.
Perché, in fondo, Black Bag è fatto tutto di inquadrature di raccordo, sottolineate dal jazz dolce e atmosferico che rimanda agli heist-movie o a Out of Sight con Clooney, pellicole divertite e di giocoso intrattenimento, scene di riempimento per braccare, forse, la verità, ma tracciandola inseguendo i soldi, come sempre (e il dialogo finale, in fondo, rimanda a quelle rapine bene articolate, in cui il denaro era solo il risarcimento per un sopruso), sinonimo di potere e di alterazione della verità, come e più delle parole, che tutto vogliono ridefinire e spiegare mettendo gli eventi nell’ordine che la narrazione aveva confusamente affastellato saltando proprio le scene esplicative. Perché, in effetti, sono i raccordi a contare, a contenere la spiegazione e la sua manipolazione, l’evocazione più del fatto in sé, l’affabulazione invece dell’evento narrato, il movimento da e verso qualcosa o qualcuno, una scena o un personaggio.
Imprigionandoli del loro stile, elegante e rilassato, il film e Soderbergh fanno perdere agli spettatori i riferimenti offrendogliene troppi: troppa trama, troppi inganni, tante citazioni, molti riferimenti, parole e musiche, luci e ombre. Tutto infine diventa evanescente, come quei chiarori esagerati, i ruoli sono fantasmi, il film un gradevole gioco al massacro che dissacra il cinema nel suo fondamento di coinvolgimento diretto, nella necessità dell’identificazione e dell’empatia e invece optare, come i protagonisti, per la logica del disinganno, la destrutturazione dell’apparenza al fine di decodificare i fatti e il loro significato, in un puro gioco mentale, necessariamente formale e disincarnato.
Soderbergh, in fin dei conti, applica con voluta ironia al film il titolo e la caratteristica del codice di riferimento, quel “Black Bag”, spesso ribadito in scena, ossia di una verità celata e omessa, un mistero necessario, sinonimo dei più vulgati “Top secret” o “Your Eyes Only”: perché non tutto è noto e il senso è riposto in chi legge e vede, e bisogna accontentarsi di brandelli evanescenti di una realtà fuggevole per cercare di capire e per non soccombere.