sabato 17 maggio 2025

Black Bag – Doppio gioco di Steven Soderbergh


Sono troppo forti le luci negli interni di Black Bag, fonti luminose quasi accecanti e sproporzionate rispetto al chiaroscuro della fotografia e della scenografia, isole di bianco su un tessuto cromatico tendente al rosso e al nero, punti ciechi per la troppa evidenza. La Red con cui Soderbergh gira in leggerezza questo thriller spionistico, rende artificiali uffici e case, troppo freddi o troppo calde, mentre si mimetizza con i colori naturali degli esterni, nelle nebbie lacustri o nelle riprese cittadine.

Giallo della macchinazione, il film sembra divertirsi a ingarbugliare matasse hitchcockiane, tra Topaz e Intrigo internazionale, su una base da commedia del rimatrimonio tra due [spooks], con infidi compari che si dichiarano amici, mescolando influenze televisive recenti come Slow Horses (pugnalate tra colleghi della stessa agenzia segreta) o Mr & Mrs Smith (interni di sopraffina eleganza domestica e tensioni amorose contrapposte), che è poi anche un titolo di una commedia di Sir Alfred.

Anche nella scelta degli interpreti, al di là delle rispettiva qualità, Soderbergh sembra giocare di rimandi e citazioni, tra The Agency e Disclaimer (le cucine delle case, nella serie e nel film, hanno le medesime proporzioni), rispettivamente serie di spionaggio e di inganno, e se Fassbender pare richiamare graficamente il Caine di Ipcress e l’aplomb bondiano del prologo di X-Men L’inizio (così come la maniacale precisione del Killer di Fincher) nel ruolo del detective delle menzogne (con tanto di poligrafo) e indagatore dell’ordito, rigoroso fino all’ossessione compulsiva, recita in sottrazione, mentre Blachett ripropone l’eleganza sofisticata di molti suoi personaggi, ma con un make-up troppo evidente e marcato (viene ripresa più volte a truccarsi) e gioca con un leggero e ironico overacting posh che insidia la veridicità del personaggio, mantenendolo nel limbo dell’incertezza.

Se il tono del film si fa cupo, con tre coppie (e qualche aggiunta) in svariati abbinamenti relazionali, tra amori consumati o provocazioni accennate di rapporti maritali, amichevoli o sessuali e, soprattutto, lavorativi, è perché in gioco c’è, letteralmente, la sopravvivenza, anche se i modi rimangono quelli della commedia sofisticata e delle scaramucce verbali che, tra affondi e confessioni, accuse e ritirate, articolano le scene madri di un film privo di azione ma zeppo di complotti. In questo gioco al massacro tra amanti e spie, assediati dalla retorica del greater good e l’inevitabilità di vittime collaterali e con la presenza di ex-Bond (Brosnan) refrattario alla pensione, l’azione latita e si perde,come un McGuffin , tra le pieghe di una trama assai parlata.

Perché, in fondo, Black Bag è fatto tutto di inquadrature di raccordo, sottolineate dal jazz dolce e atmosferico che rimanda agli heist-movie o a Out of Sight con Clooney, pellicole divertite e di giocoso intrattenimento, scene di riempimento per braccare, forse, la verità, ma tracciandola inseguendo i soldi, come sempre (e il dialogo finale, in fondo, rimanda a quelle rapine bene articolate, in cui il denaro era solo il risarcimento per un sopruso), sinonimo di potere e di alterazione della verità, come e più delle parole, che tutto vogliono ridefinire e spiegare mettendo gli eventi nell’ordine che la narrazione aveva confusamente affastellato saltando proprio le scene esplicative. Perché, in effetti, sono i raccordi a contare, a contenere la spiegazione e la sua manipolazione, l’evocazione più del fatto in sé, l’affabulazione invece dell’evento narrato, il movimento da e verso qualcosa o qualcuno, una scena o un personaggio.

Imprigionandoli del loro stile, elegante e rilassato, il film e Soderbergh fanno perdere agli spettatori i riferimenti offrendogliene troppi: troppa trama, troppi inganni, tante citazioni, molti riferimenti, parole e musiche, luci e ombre. Tutto infine diventa evanescente, come quei chiarori esagerati, i ruoli sono fantasmi, il film un gradevole gioco al massacro che dissacra il cinema nel suo fondamento di coinvolgimento diretto, nella necessità dell’identificazione e dell’empatia e invece optare, come i protagonisti, per la logica del disinganno, la destrutturazione dell’apparenza al fine di decodificare i fatti e il loro significato, in un puro gioco mentale, necessariamente formale e disincarnato.

Soderbergh, in fin dei conti, applica con voluta ironia al film il titolo e la caratteristica del codice di riferimento, quel “Black Bag”, spesso ribadito in scena, ossia di una verità celata e omessa, un mistero necessario, sinonimo dei più vulgati “Top secret” o “Your Eyes Only”: perché non tutto è noto e il senso è riposto in chi legge e vede, e bisogna accontentarsi di brandelli evanescenti di una realtà fuggevole per cercare di capire e per non soccombere.

domenica 11 maggio 2025

Kraven – Il cacciatore di J.C.Chandor


Sembra un risultato spurio del multiverso del MCU, con cui è imparentato, questo ultimo film legato al mondo dei nemici di Spiderman senza il protagonista, operazione di per sé già discutibile e che riesce, a ogni tentativo, a sprecare un ottimo materiale di partenza per costruire personaggi non del tutto negativi, ovvero supereroi che uccidono. Ma è un inconsapevole gioco di specchi deformanti che costruisce una trama parallela del film, con attori che provengono da altri ruoli e, letteralmente, da altri mondi, narrativi o meno, rivestiti degli abiti di un nuovo personaggio, in fondo intercambiabile. Così Aaron Taylor-Johnson, dopo essere stato il giovane Kick-Ass è diventato il non-mutante Quicksilver (per diritti non ancora acquisiti dalla Marvel), mutato artificialmente anche nel nome diventando il superveloce Pietro Maximoff degli Avengers. Russel Crowe, ormai figura paterna per eccellenza, sebbene non priva di difetti, dopo Jor-El, il genitore di Kal-El alias Superman (versione Snyder), è stato il lubrico e irascibile über-Dio Zeus in Thor: Love and Thunder. In questa selva di ricorrenze e sovrapposizioni, i due adesso sono padre e figlio, i cacciatori e mafiosi russi Kravinoff nonché nucleo emotivo e psicanalitico di un film tutto costruito sugli irrisolti traumi causati da un genitore manipolatore a una prole renitente al destino prescelto.

Da qui si sviluppa un banale film d’azione che rovina un personaggio composito e complesso come quello di Kraven, avversario ricorrente di Spiderman che, negli albi, vorrebbe catturare per includerlo nel suo zoo personale di conquiste animalesche e destinato a una fine perturbante, eroso dalla malattia in un ciclo di fumetti di notevole efficacia e forza. Non si può dire lo stesso del film che, dopo una partenza sostanzialmente interessante con un’esecuzione siberiana che ridefinisce il personaggio come sicario benevolo intento a eliminare pericolosi criminali, si riduce a ricucire i contorni del cacciatore come schiavo dei propri legami familiari, introducendo e sprecando altri noti antagonisti del Ragno: Rhino, subito sconfitto; il camaleonte, destinato a ulteriori sviluppi; lo straniero, dai poteri inspiegabili (e grosso vuoto di sceneggiatura.

Solo alla fine Kraven troverà il giubbotto dal collo di pelliccia (ma non le caratteristiche pantofoline da danza) che ricompone l’iconografia del personaggio e lo renderà (assieme ai baffi) graficamente un alter ego di Freddie Mercury, con molte implicazioni camp.

Il film, dopo un paio di belle scene d’azione, un movimentato inseguimento londinese e l’esecuzione nel carcere russo, viene attraversato da un protagonista molto bravo nel flettere gli addominali, sempre di corsa e molto corrucciato, ma si perde nel ricucire le fila della trama, tra incantesimi e maledizioni familiari, superpoteri e pozioni, mafia russa e connivenza economica. Poco convinta del materiale, la produzione sembra avere sabotato le intenzioni di Chandor, autore altrove di un certo interesse (All Is Lost1981: Indagine a New York), con rielaborazioni grafiche poco curate, scene piene di errori (il safari iniziale), mentre il regista sembra voler portare il film verso una fisicità (come nei Bond di Craig) che qui emerge solo a tratti, sia negli sforzi di Kraven, che corre a piedi nudi dietro alle macchine e si arrampica senza ausili sui palazzi, sia nel fatto tutti i superpoteri provengono dalla alterazione dei corpi attraverso soluzione chimiche o mistiche.

In effetti la trasformazione del fisico, con le sue nefaste conseguenze e responsabilità, costituisce il nesso principe tra Spiderman e i suoi antagonisti, nemesi somiglianti nel ritrovarsi cangianti e potenti, opposte nel veicolare le acquisite doti verso intenti egoistici o altruistici. Venendo meno il referente comparativo, il senso dei film dello Spiderverse si smarrisce in pellicole d’azione che si inseriscono confusamente nel filone supereroistico senza senso né destinazione, tra la trilogia sconclusionata di Venom o la tetra sofferenza vampiresca solipsistica di Morbius, così come la farsa da teen-drama in vacanza di logica di Madame Web e dello stesso Cacciatore con i suoi compagni d’avventura, tutti costretti a fare i conti con un corpo che cambia e con il suo inserimento ai margini della società verso una nuova logica di convivenza.

Privi del contrappeso dell’eroe buono, tutti questi film si limitano a definire contesti divergenti per personaggi smarriti ma non cercano mai di rielaborare il concetto di supereroe, travolti dall’azione per riempire il minutaggio e, soprattutto, rimangono tristemente privi di direzione nel concepire un senso di regia nel progetto, sia del singolo film che complessivo, sprecando un intero immaginario.

giovedì 8 maggio 2025

Captain America – Brave New World di Julius Onah


Film di transizione, verso un futuro migliore delle deludenti aspettative del ciclo sul multiverso, ovvero la Fase 5 del MCU, la prima avventura del nuovo Capitan America è un sequel cinematografico di Endgame (2019) e televisivo di The Falcon And The Winter Soldier (2023), secondo quell’integrazione ormai perfetta tra piccolo e grande schermo voluta da Disney e che vede alla sua confluenza il canale in streaming Disney+.

Ma non è facile tornare in sala, anche per un supereroe, dopo essere stati visti in tv, e nemmeno il titolo di novello capitano americano non è stato sufficiente a richiamare la moltitudine di spettatori degli Avengers. Ed è anche in quest’ottica di ritorno dei Vendicatori che il film con Falcon e lo scudo si rivela di transizione, evocandone in chiave minore i fasti ma permettendo al personaggio, tramite il nuovo Presidente che lo informa della sua intenzione di riformare il gruppo, di farsene precursore. Nel frattempo, però, gli Avengers sono stati decimati, dato che praticamente ogni capitolo aggiuntivo a Endgame è servito a congedarsi di almeno uno dei vecchi eroi mascherati, e il riscontro del pubblico si è fatto sempre più flebile.

Il nuovo Captain America, come vuole la tradizione del personaggio, si trova alla confluenza tra azione e spionaggio, tra spirito patriottico e ubbidienza, sempre in lotta tra dovuta fiducia e iniziativa individuale. Alla solarità di Steve Rogers, figlio degli Anni del New Deal, si sostituisce la consapevolezza anche razziale di Sam Wilson (e del regista), molto più critico nei confronti di ogni ordine impartito dall’autorità, soprattutto se incarnata da un militare forsennatamente avverso ai supereroi come Thaddeus Ross (qui interpretato da Harrison Ford, dopo la dipartita del precedente interprete William Hurt), acerrimo nemico soprattutto di Hulk (temporaneamente indisponibile perché mandato nello spazio nella serie She-Hulk). Ed è proprio al primo film dei Marvel Studios, all’Incredibile Hulk del 2008 a cui questa pellicola fa diretto riferimento, recuperando anche l’altro personaggio (dopo che il primo avversario del gigante verde, Abominio, era riapparso in She-Hulk), Samuel Sterns, scienziato vendicativo. Eliminato lo Shield e allontanato Nick Fury (nell’omonima miniserie), l’elemento spionistico è costituito dal complotto verso il presidente, legato a un condizionamento comportamentale debitore di molta letteratura e serialità (Alias, ad esempio, da cui proviene l’interprete del supersoldato nero e dimenticato) così come, cinematograficamente, almeno dei dueManchurian Candidate (di cui uno di Jonathan Demme). Ma è strano che la presenza di una Vedova nera (versione ex-Mossad: Sabra) non abbia portato i personaggi a pensare alle antiche tecniche di condizionamento della stanza delle Vedove (cfr Black Widow) e ad arrancare per mezzo film per capire cosa stesse succedendo.

Se Steve Rogers doveva fama e ruolo al siero del supersoldato, che ne ingigantiva le capacità , in questo film (Isaiah Bradley a parte) i supereroi militanti non possono che contare sulle proprie forze, coadiuvate da allenamento e sofisticate armature da combattimento (i due Falcon), oltre al fidato Scudo in Vibranio ereditato dal primo Cap, mentre gli avversari sembrano tutti potenziati (fisicamente o mentalmente) dai raggi gamma, con una discrepanza tra la rabbia del mutato Hulk Rosso e l’agilità del semplice umano rinforzato, mettendo sempre in difficoltà anche la credibilità delle scene.

Nel suo ingrato ruolo di erede designato e prosecutore, il personaggio e il film fanno i conti con l’elemento di continuità con gli Eternals (uno dei minori successi della Marvel tanto da non meritarsi alcun seguito), ovvero l’emergere del corpo di un Celestiale dalla massa terrestre (che avrebbe portato alla distruzione del pianeta, se completato) diventato adesso una nuova isola in mezzo all’Oceano Indiano e oggetto delle mire di molte potenze per la presenza di un nuovo potentissimo materiale (l’Adamantio) di cui l’America si vorrebbe autoproclamare garante e che fa avanzare una trama che, da diplomatica, si fa sempre più militaresca.

Ed è forse in questa veste, geopolitica, nazionalistica e predatoria, che il film riflette una certa attualità, con una modalità che non vuole (per condizionamenti imposti e tempi di produzione) essere critica ma che può diventare metaforica, poiché vedere il presidente neoeletto che distrugge per furia e volontà di potenza l’Ufficio ovale e la Casa Bianca incarna perfettamente il rischio di questa America, rossa di rabbia come le cravatte del Presidente, che si vorrebbe e si proclama di nuovo grande, mentre intimorisce il mondo che la guarda con crescente preoccupazione. Ed è ironico vedere che, parallelamente, sul piccolo schermo, anche la Grande Mela guidata da Wilson Fisk, nuovo sindaco in Daredevil: Born Again, si trasforma nel porto franco di tutte le nefandezze di un criminale mai davvero redento, che sfrutta leggi e potere per garantirsi immunità e guadagno con violenza e prepotenza (un discorso peraltro poi prolungato dall’altra serie Disney+, Andor, facendo riferimento all’opprimente Impero di Palpatine in Star Wars e assumendo il tragico punto di vista dei ribelli di Rogue One).

E, così, l’ultimo Captain America, abbastanza lineare nello sviluppo e piatto nell’esito, che vuole ricucire le fila di una narrazione fin troppo espansa tra i vari lati di uno schermo che smarrisce i suoi sfrangiati margini, con supereroi riluttanti e infine poco convincenti, a loro volta persi tra i risvolti dei riferimenti pregressi, diventa infine un film di transizione tra la finzione e un’inimmaginabile realtà, metafora inquietante di un altro Brave New World precario e rovinoso, in via di definizione.

Conclave di Edward Berger


La struttura di Conclave non è dissimile da quella di una puntata di un procedurale televisivo in cui, alla ricerca del colpevole, l’indagine individua uno o due sospetti per infine scoprire, con un colpo di scena rivelatore, il vero assassino. Allo stesso modo, i cardinali riuniti nel conclave eliminano uno dopo l’altro i migliori candidati, davvero colpevoli di qualche fallo, non proprio veniale, e arrivano alla conclusione di un unico, reale papabile. Con questo andamento uguale e contrario al poliziesco più classico e quotidiano, il film risulta un thriller abbastanza convenzionale e, come tale viene fotografato, con abbondanza di chiaroscuri, misteri e sotterfugi in abbondanza, una ricerca del candidato che si assimila a un’indagine investigativa in cui capire chi sia davvero innocente, senza peccato e adatto al trono pontificio. Il tutto condito da interessanti ed eleganti massime sulla fede, la sua evanescenza, sul dubbio come motore e sull’azione imperscrutabile dello spirito santo che hanno fatto vincere l’Oscar della migliore sceneggiatura non originale al film (su 8 candidature).

Eppure è la regia che dal film emerge, con una recitazione sommessa e concitata al contempo, fatta di un basso continuo di voci sussurrate, interrotto da improvvisi scoppi di ira e di violenza verbale, di esplosioni di umanità latente e dolente. Perché Conclave è un film dalla evidente corporalità, imprigionata dalle forme delle sue stesse geometrie, sia geografiche che morali, ovvero di inquadrature compassate e simmetriche, raggelate su sfondi impassibili e imponenti. Tra la claustrofobia tombale di Santa Marta, dove dormono i cardinali e dov’è morto il pontefice, murati nel marmo di pareti vuote, fino alla dovizia di dettagli e dolore magnificati dagli affreschi della Sistina, i cardinali si muovono come galleggiando su pavimenti istoriati o anodini, assediati da un buio caravaggesco su cui si stagliano, deboli e mortali, intenti a un chiacchiericcio futile e forsennato mentre il nero alle loro spalle sembra in procinto di divorarli.

Nel cercare di stabilire chi tra loro sia il più meritevole, o il meno indegno ad avvicinarsi con migliore sincerità al divino, il corpo dell’erede di Pietro si sustanzia con evidenza, mentre il film tutto è punteggiato da elementi corporei sempre più evidenti, dal cadavere del vicario di Cristo iniziale, reso più umano dalla scomparsa e sballottolato nel suo sacco mortuario, fino al corpo anomalo di un suo successore imprevisto su cui si conclude; è la materia stessa della Chiesa che viene messa in dubbio, soprattutto nella sua eccezione di Curia romana, di corpo travagliato, di ufficio di governo, dedita alla politica e alla convergenza delle divergenze durante l’elezione e le numerose e contraddittorie nomine successive. A fare da contrappunto sonoro alla storia di un corpo, il cui spirito si travasa in un nuovo contenitore umano, ci sono i respiri affannosi e i sospiri, le urla e gli insulti, i rumori della vita e della carne, ben in risalto nella colonna sonora.

Oltre il giallo del minor colpevole E la strategia del miglior candidato, veicolati dal copione, il film vive della sua messinscena, di una reclusione coatta tra pareti troppo spoglie o esageratamente ornate in cui semplici uomini si agitano per carpire un senso che sfugge, addobbati dal rito e dalle consuetudini di un maschilismo imperante in cui il femminile (delle suore, delle amanti, del corpo) è un’eterna minaccia e un’eresia, imprigionati da una tradizione astratta e rigida che impedisce loro letteralmente di vedere il mondo, che diventa, pertanto, estraneo, sino alla violenza della protesta di un incompreso maltrattato.

Il montaggio, preciso e mai voluttuario come nella maggioranza dei recenti film -soprattutto italiani-, alterna dettagli e inquadrature d’insieme, aumentando la claustrofobia di una pellicola con pochissimi esterni, in apparenza concentrata nello svelare un segreto nascosto quando invece avanza nel seguitare le mosse di uno scacchista defunto che aveva ordito e ordinato tutto, lasciando l’illusione di un libero arbitrio. Di questa regia occulta e segretamente ironica, il film mima l’andamento, procede così spedito e perfettamente controllato, sino all’evidenza di una conclusione inscritta nella sua premessa, che lo spettatore laico legge come sceneggiatura di ferro ottimamente illustrata, il credente in Piazza San Pietro, nella finzione come nella realtà che l’ha raggiunta, può rintracciare l’opera imperscrutabile di uno Spirito Santo.

martedì 14 gennaio 2025

Emilia Pérez di Jacques Audiard


Nella prolungata e personale ricognizione delle declinazioni, anche internazionali, del noir, mancava ad Audiard la variante musical, che il regista affronta adesso in Emilia Pérez, mescolandola con l’ambientazione messicana e il legame al narcotraffico. Sembra infatti, in alcune sequenze di questo musical anomalo, di trovarsi sul set di Soldado o di Sicario, con la stessa violenza soggiacente alle inquadrature sabbiose, con quei viaggi nel deserto su macchine inseguite da nuvolazzi di polvere, tra teste incappucciate, cadaveri smembrati e mitra tonanti. E, in effetti, non si è molto distanti dalla violenza vellutata di quelle pellicole, pronta a scoppiare al minimo sgarro, una sinfonia di spari e sangue sempre in agguato.

Ma è di altra musicalità che parla il film, con quella scelta azzardata di coniugare un ambiente machista e dedito al dolore e al profitto con la ricerca della felicità, di un accordo, forse impossibile, tra desiderio e verità, tra intimo e pubblico in una storia di cambiamento. Di sesso, certo, con la volontà imperturbabile dell’efferato narcotrafficante di diventare donna, ma anche di senso, con l’ambizione di fare del bene, di sfruttare il denaro sporco per un vantaggio pubblico e non per utile personale, di equilibrio anche, nella costruzione di una famiglia diversa e molteplice, di un’utopia d’amore di sé e degli altri. Le regole del noir, soprattutto quando si sommano alle convenzioni del melodramma, poco scampo lasciano alla gioia, di cui però il film coglie i bagliori con sentimento tale da emozionare spesso, tanto da commuovere alla vista di un dramma in musica che si vorrebbe commedia, con numeri musicali, cantati e ballati, che squarciano il realismo per rafforzarne il senso, per approfondirne la sofferenza o mostrarne l’essenza.

Ed è in questo costante scambio tra la verità interiore che diviene esteriore, tra una tragedia che si traduce in note e sequenze che mostrano ciò che si sente invece di quel che si vede, che il film trova tutto il suo significato e sentimento, esacerbando l’interiorità nell’artificio del gioco di luci e di colori, nelle melodie intonate, negli strappi narrativi che non sono mai sospensioni di una drammaturgia che avanza, letteralmente, a suon di musica. Tra il rosa degli abiti e il rosso del sangue, l’ocra della sabbia desertica e il nero della notte e dell’assenza di giustizia, l’orecchiabilità delle canzoni e l’incisività del racconto mai stonano tra loro, ogni dissonanza si assorbe nella stessa commozione che corrobora la partecipazione emotiva e viscerale al percorso delle protagoniste, tutte tentate dal buio e dall’amore, tutte alla ricerca di una qualche felicità residua. Ed è doloroso vederle vagare verso un destino certo, che si fa nitido con lo scorrere dei pezzi musicali e del racconto, anche se l’abilità del regista ne fa risaltare le motivazioni e intercetta lo sguardo dello spettatore meravigliandolo sia con la grandissima abilità performativa delle riprese quanto delle sequenze musicali.

Tra West Side Story e La La Land, è proprio nel gioco con la convenzione e l’apparenza che il film trova la sua verità, emotiva e interiore, poi esasperata nei colori e nella musica, nel falso di un corpo che si trasforma in un altro, del tutto finto per essere più vero, più sentito e autentico, per essere più sé. Perché, in fondo, tra gangster e avvocati mercenari, in mezzo alla corruzione delle istituzioni e alla mercificazione della violenza, Emilia Pérez è un film ad alto tasso politico soprattutto per la sua intima essenza, l’affermazione perentoria della sincerità verso di sé.

lunedì 13 gennaio 2025

The Substance di Coralie Fargeat

Inizia molto bene l’ultimo film della Fargeat, con un riassunto della carriera della protagonista da attrice cinematografica riconosciuta a personaggio televisivo in declino nel semplice degrado della sua stella nella Walk of Fame sull’Hollywood Boulevard.

Il problema è che il resto del film manca proprio della medesima concisione e incisività, raccontando il tracollo dell’attrice, interpretata da Demi Moore, licenziata dal suo spazio catodico di allenatrice di aerobica per sopraggiunti limiti di mezza età, e tentata da un prodigioso rimedio, una sostanza che la riporta letteralmente alla giovinezza duplicandone il corpo in un clone nuovo (di Margaret Qualley). Ma come ogni patto col diavolo comporta, anche questo impone delle regole, inflessibili quanto semplici: la coabitazione è impossibile e i due corpi dovranno alternarsi vivendo a settimane alterne. E, in quanto racconto morale, anche questa parabola è destinata al fallimento, all’impossibile convivenza delle due donne, infine in gara tra loro per un unico spazio vitale.

La scelta della regista, parlando di corpo femminile, è di traslare la narrazione da satira del male gaze al body horror, senza lesinare sul grottesco. Così ogni sguardo maschile è schifosamente disgustoso, perfettamente incarnato dall’esagerazione recitativa del dirigente televisivo di Dennis Quaid (che poi ha confermato la tentazione del personaggio con l’endorsement a Trump), dai dettagli sul cibo masticato in una bocca sempre aperta e dallo sguardo rancido e lussurioso, ma talmente pervasivo da contagiare ogni punto di vista (come nella sala affollata di spettatori) sino a quello stesso della protagonista, che non sa vedersi se non attraverso lo specchio deformato del punto di vista dominante. A nulla quindi serve la sua sostituzione rancorosa con l’altra sé, che non è altro da sé se non ringiovanita, concorrente per la medesima posizione in una rivalsa che si rivela futile e pretestuosa. Perché quel corpo giovane diviene subito, anche per le proprie esigenze di popolarità, una concorrente, da penalizzare e punire, non una sodale al fianco della quale combattere un predominio ingiusto

E di fronte all’impossibilità della scelta di vivere appieno una mezza vita, la doppia protagonista ingaggia una serratissima lotta contro se stessa che assume l’aspetto di una guerra del sesso persa in partenza, perché improntata soltanto all’affermazione nella sostituzione, quindi alla prevalsa del corpo e della corporeità, di cui rimane sempre e comunque vittima. Da cui la scelta di travalicare il conte moral e trascinarlo nel racconto dell’orrore, dove, con cinefila necrofilia, la regista inanella citazioni su citazioni del miglior cinema di riferimento colto, da Kubrick a Cronenberg, da Lynch a De Palma, tra Cronenberg e Scott, in mezzo a schizzi di sangue, inondazioni di emoglobina, corpi mostruosi, creature difformi e patetiche, omicidi efferati, mostri sbudellati e risate sbellicate.

Ne risulta un indigesto accumulo di allusioni e imprestiti che appesantiscono un film che diventa una vetrina di uno sguardo altro e altrui, senza alcuna pietà per un’eroina persa tra vischiosità umorali e ridicolo morale, che non si affranca mai da ciò che la condanna. Lo sguardo del maschio diventa il punto di vista implacabile di una regista moralista che si vendica sulla vittima, colpevole di essere incapace di rispondere se non cercando una scorciatoia per essere soltanto vista e rivista, ma mai veramente guardata. E nella sua inflessibilità sarcastica e cinica, Fargeat perde il film per troppa coerenza, ridicolizzando il suo stesso soggetto e saturando gli occhi dello spettatore con uno spettacolo che stanca e sfianca, in una ripetitività e linearità che poco lasciano all’immaginazione, concedendo poi l’unico sollievo della fine, con il ritorno su quel marciapiede accidentato dal sogno di essere visti.

Ma mai per davvero, perché anche la regista finisce per mascherarsi e nascondersi dietro agli sguardi altrui, con inquadrature rubate e reiterate, citazioni sottratte a veri maestri del cinema che costruiscono un immaginario soltanto cacofonico e derivativo.

Civil War di Alex Garland

Regista abituato alla fantascienza, Garland si cimenta in Civil War con la distopia di un’America infranta, spaccata in una guerra civile senza vero senso e mai del tutto spiegata, avviata dalle iniziative di un Presidente spregiudicato che, a quanto si dice nel film, ha iniziato a smantellare l’FBI e altre strutture federali. Con uno stile estremamente realistico e anti retorico, che sembra rifarsi al miglior Stone di Salvador o al quasi coevo melò giornalistico di Sotto tiro (ma privati di qualsiasi residuo politico), Garland segue un gruppo di disillusi reporter di guerra che avanzano nel pericolo del territorio fratto degli Stati ormai disuniti, a guardare gruppi di assalitori e agguati sempre più sanguinari, fino all’apice dell’assedio alla Casa Bianca, non più luogo del potere politico, celebrato in tanti film o serie famose, come l’utopia democratica di West Wing, ma fortino dell’arroganza e della spregiudicatezza, quasi in una versione parossistica del sarcasmo (pseudo) repubblicano di Scandal.

Non importano poi tanto le ragioni dell’origine del male quanto i suoi effetti, la distruzione della democrazia e il trionfo del caos che, miglio dopo miglio, una vittima dopo l’altra, fagocita le istituzioni, con soldati dalla stessa uniforme in lotta luno contro l’altro, armati di ideologie senza idee e di confusione esistenziale che lascia spazio solo alla forza delle pallottole, alla guerra come ultima forma di comunicazione e sopraffazione. Ed è allora utopico pensare che i giornalisti e fotografi di guerra possano spiegare qualcosa, se non illustrare la morte, seguirne le tracce di sangue. Il gruppo di giornalisti attraversa l’America disfatta su una macchina malconcia, in un road movie senza speranza che esce in quello che poi sarebbe stato solo l’interregno democratico tra due presidenze Trump, e che estrapola le premesse di Capitol Hill in un incubo cinematografico che doveva essere un monito, quando invece l’elettorato è andato a certificare la realtà della minaccia e a preparare un presente assai incerto, dominato da fazioni e frazioni, da divisioni e cecità, da egoismi e intransigenze, da interessi e odi, in mezzo a grida efferate di vendetta e al caos quale unica certezza.

In quel gruppo disomogeneo di giornalisti, tra la giovane e acerba aspirante reporter e gli anziani affermati, c’è l’abisso della disillusione, la sofferenza della morte vista e vissuta da troppo vicino, in agguato a chiedere il conto, la temerarietà ingenua della neofita a contrasto e confronto con chi ha visto il male e sa di ritrovare il peggio. E il regista accompagna lo spettatore a fianco della ragazza, immedesimandosi nel suo sguardo ancora curioso, con la fiducia che il racconto della storia sia anche la verità, lasciandoci psicologicamente tumefatti e turbati a contemplare la vastità della disillusione. Non c’è più storia né verità, perché forse non c’è nemmeno più futuro, e un passato da ricostruire, senza ripeterne gli errori per evitarne gli immani e forse imminenti orrori.

Flow – Un mondo da salvare di Gints Zilbalodis

Tutto scorre. Anche l’acqua che invade il pianeta, ormai disabitato dagli umani. Vestigia recenti di civiltà (una città antica, statue, templi) riemergono a tratti dalle acque che tutto invadono, anche la casetta in campagna dove ancora abita il micio nero protagonista il quale, a sera, continua ad accucciarsi nel letto appena sfatto di quello che probabilmente era il suo padrone, un artista amante dei gatti ai quali aveva dedicato opere di varia natura (disegni, sculture anche enormi). Il peregrinare per le campagne, correre e inseguire le prede naturali, giocare al sole o dormire all’ombra è però ormai di breve durata, perché tutto il mondo noto è sconvolto e le acque non fanno che salire. E anche il gatto, naturalmente avverso all’acqua ma perfettamente capace di nuotarvi, è costretto a salire fortunosamente su un’imbarcazione e a coabitare con altri animali, allontanandosi da ciò che conosce e dal suo universo mappato e ripetuto (che per un felino è il peggior trauma).

Con un’ambientazione forse asiatica, ma pressoché astratta, e un tratto del disegno raffinato negli sfondi e quasi incerto nei dettagli dei corpi, sebbene fedele nella riproduzione dei suoni, il film di Zilbalodis è un road movie acquatico con gli animali a costituire un equipaggio in coabitazione forzosa su un piccolo veliero di fortuna, alla deriva in un mondo quasi interamente sommerso. I tratti caratteristici delle bestiole, così come i loro versi, vengono mantenuti e trascritti nel film senza la tipica umanizzazione che antropomorfizza tutto: sono animali e tali rimangono, anche se la loro vita in comune è l’ultimo elemento sopravvissuto di un più vasto ecosistema. Ed è proprio nella collaborazione tra diversi, nell’aiuto reciproco interspecie e nel superamento delle singole peculiarità caratteriali, il messaggio del film, che vede cooperare il curioso e intelligente gatto nero, un cane bianco affabile e giocherellone, una sorta di gru allontanata con violenza dai suoi simili, un lemure collezionista di artefatti umani, un capibara sonnacchioso, assieme a una balena che li accompagna a distanza, inoltrandosi come loro in territori finora inesplorati e inaccessibili.

A poco a poco ognuno perde i propri egoismi per rafforzare il reciproco sostegno e salvarsi a vicenda, gli animali imparano a convivere, a procacciarsi cibo o ad aiutarsi, scappando insieme dalla furia degli elementi e dalle incertezze del nuovo mondo. Alla dimensione allucinatoria del contesto risponde anche la ripetuta dimensione onirica del felino che, lentamente, prende coscienza di sé e dei pericoli che incombono, mentre si ripetono i segnali di imminenza del disastro (la fuga dei daini e degli animali terrestri, l’arrivo improvviso e conseguente dell’alta marea) e gli incubi si fanno più opprimenti.

Non si sa cosa sia successo, forse un disallineamento del pianeta, un allentamento della gravità che porta l’acqua a risalire sulle terre emerse, come potrebbe far pensare un momento di inesplicabile sollevamento aereo del volatile e del felino, il primo infine inghiottito dai cieli prima che l’acqua torni a un livello accettabile. Niente è spiegato e nulla, infine, raccontato, se non quel processo di avvicinamento dei diversi che diventano amici e complici, riuniti alla fine insieme ad aspettare il futuro, consci almeno della reciproca solidarietà. Compresa quella balena che, fellinianamente, sembra comprendere tutto, con il suo occhio appannato, spiaggiata su una collina. Riflesso in una pozza d’acqua, come all’inizio del film, il gatto si guarda anche alla fine, specchiandosi però, adesso, assieme agli altri.

Con una leggerezza grave, la giocosa fedeltà alle abitudini animali, il linguaggio enigmatico di chi rinuncia alle parole e all’interferenza degli uomini, il regista lettone insegue lo sguardo raso terra e a filo d’acqua di chi è rimasto, immergendosi nei flutti o volando nell’aria assieme ai suoi protagonisti, e guarda il gattino vedersi e capire quando iniziano i titoli di coda. Dopo i quali, da lontano, emerge dall’acqua uno sguardo distante, forse senza più connotazione né attribuzione, che scioglie le lacrime in un flusso incontenibile.


lunedì 30 dicembre 2024

Giurato numero 2 di Clint Eastwood

Eastwood ritorna al courtroom drama là dove lo aveva lasciato, alla Mezzanotte nel giardino del bene e del male ambientato nella medesima Georgia che ospita la vicenda anche di Giurato n°2, in quell’umidità appiccicosa di Savannah che si popola di fantasmi e di misteri, di colpe e di innocenze perdute, dove la verità sembra perdersi nella foschia che rende incerto il visibile. Ma della vicenda processuale Eastwood prende l’essenza di una esposizione dei medesimi fatti che scaturisce in una interpretazione opposta, colpevolista o innocentista, sottolineata da un inedito e rapido montaggio alternato delle testimonianze e delle arringhe, che si annullano a vicenda, lasciando il fardello della decisione finale alla giuria, l’orpello democratico di un gioco delle parti del sistema giuridico americano che mette nelle mani dei suoi concittadini il destino di una persona.

Il regista si avvale di un perfetto plot hitchcockiano, variato però al contrario, con un uomo qualunque alle prese con il pericolo di una condanna tramite un scambio di persona, esattamente come in Io confesso e come in molti altri film del regista inglese, con una struttura a cappio che si stringe attorno al protagonista, in un calco del Ladro, ma con la piccola ma fondamentale differenza che l’eroe è anche il colpevole. Con una tensione crescente, non dissimile da Senza via di scampo di Donaldson, il protagonista lotta contro circostanze sempre più incriminanti per una libertà che forse non merita, cercando, al contempo, di non essere indiziato e di non far giustiziare un innocente, per non condannare la propria coscienza. Con queste premesse, la suspense hitchcockiana funziona correttamente ma al contrario, perché il pubblico conosce sì la verità e sa a cosa va incontro il personaggio principale mentre lui non è al corrente della sottotrama investigativa che va dipanandosi, ma il pubblico però tifa - forse - per la verità. Nel susseguirsi di testi e di prove presentate, quando si argomentano teorie e si inanellano apparenti certezze, della giustizia i confini diventano sempre più labili, sporcati dalla cattiva coscienza della colpa e della politica, dai desideri e dalle ambizioni, e il film si ritrova ancora una volta in quel giardino dove bene e male si avviluppano e si smarriscono.

Tornano anche riverberi di altri film di Eastwood, con la scena cruciale che coinvolge un uomo e una donna, con una macchina e la pioggia battente: ma se quella scena suggellava il mélo dei Ponti di Madison Country, portando lontani i destini dei due temporanei ma indimenticati amanti con la definitiva separazione, in questo film, scambiando le posizioni al volante e variando in notturna l’ambientazione, il fato riunisce due sconosciuti in un incontro fatale e dimenticato, da cui poi scaturisce la tensione dell’intera narrazione. Inoltre, l’alcool è spesso un compagno di sventura per molti protagonisti di Eastwood, dal giornalista di Fino a prova contraria al cantante in crisi di Honkytonky man, dove il personaggio cercava comunque di redimersi superando la dipendenza e imprimendo una diversa direzione alla propria vita (non sempre riuscendoci); in questa ultima pellicola, il giurato, ex alcolista già sobrio (sebbene tentato dal bere), cerca di far deviare le vite degli altri affinché non cozzino con la sua, uomo gentile e onesto, sincero e probo, almeno fino a un certo punto, ricercando l’evidenza di una redenzione che non potrà essere tale.

Con un’ironia feroce che soggiace a tutto il film e al suo stesso impianto narrativo, ma che mai si manifesta in cinismo o critica evidente verso i personaggi, Clint Eastwood costruisce una pellicola di classica modernità, pacata nell’incedere ma ferrea nella regia, cinefila quanto originale, dove ognuno ha le sue ragioni e anche ottimi argomenti per portarle avanti, con cui il regista continua il suo ritratto di un’America fatta di solitudini e di incomprensioni, col suo umanesimo liberale che non tinge mai la solidarietà di ideologia perché è scelta singola e irripetibile, non un modello a cui attenersi. E come monadi impazzite, i personaggi del film rimbalzano gli uni contro gli altri in dialoghi fitti e situazioni tese, creando un thriller che lascia La parola ai giurati e cancella il giallo del whodunit con un colpevole inconsapevole. Sfruttando al meglio le prove di tutti gli attori, relegando anche premi Oscar in parti minori, il regista, come Hitchcock con Cary Grant nel Sospetto, si avvale della bella faccia pulita di un protagonista (Nicholas Hoult) per raccontarne i tormenti, lasciando, rispetto al film del 1941, che le angosce e i dubbi dell’omicida (quale era Grant nel progetto originale) si riflettano su quel medesimo volto, straziato dal bene e dal male. Almeno per un po’.

mercoledì 24 gennaio 2024

The Marvels di Nia DaCosta



Dopo l’exploit, narrativo (per la conclusione del lunghissimo arco di tutti film del MCU) ed economico, di Endgame, la Marvel sembra essersi ripiegata su se stessa con pellicole sempre più deboli, eroi di secondo piano forzati sul proscenio, l’eliminazione progressiva dei supereroi superstiti e la colpevole perdita, soprattutto, di un punto di vista produttivo univoco e unitario. Con una successione di uscite in sala sempre più deboli, il fulcro dei Marvel Studios sembra essersi concentrato sui prodotti seriali televisivi, nei quali importa la qualità cinematografica degli effetti speciali e, a volte, l’intelligenza di una serializzazione sensata, che parte benissimo con WandaVision per smarrirsi del tutto fino al più recente Secret Invasion.

The Marvels, più che un sequel di Captain Marvel, sembra uno spin-off delle serie Disney che vi confluiscono, ovvero, cronologicamente, WandaVision e Ms Marvel, dove avevano avuto la loro origin story le due coprotagoniste, riunite alla supereroina stellare dai poteri Kree per la comune capacità di manipolare la luce. Se WandaVision è sinora stata il primo e migliore prodotto seriale Marvel, il film non ne eredita la serietà di intenti in una confezione di spessore e ironia melodrammatica, ma si adatta meglio all’altra serie, la cui protagonista adolescente condiziona l’andamento narrativo della pellicola riducendola a un teen-movie con tendenze demenziali. Con i titoli di testa animati dai disegni del diario di Kamala Khan, il film introduce un team-up supereroistico sui generis in cui prevale il divertimento, con scene musicali simil-bolliwoodiane con un intero pianeta danzante, scambi fisici di ruolo con cadute vertiginose e salvataggi in extremis e la conquista a suon di smorfie delle due partner da parte di Ms Marvel. Le sue faccette stupite e rapite dall’eccezionalità delle compagne come dall’avventura spaziale in cui è capitata (grazie a un inghippo quantistico del tutto gratuito) prevalgono sulla seriosità di Brie Larson, che sembra traslata direttamente dalla (bella) serie Apple Lezioni di Chimica, col suo personaggio in apparenza monocorde e al limite dell’autismo; mentre alla terza eroina, Monica Rambeau, già presente da bambina in Captain Marvel, tocca mediare con la ragionevolezza della scienziata tra i due estremi anche recitativi.

Con una nemesi ricalcata sull’altro Kree, Ronan l’Accusatore, e di poco spessore perché monomaniacalmente dedita alla distruzione di quanto legato alla Denvers, il film si concentra in prevalenza sulla costruzione della nuova squadra di supereroine e, infine, sul legame affettivo che si va costruendo (sino al finale “familiare”) per terminare, come da norma, con lo scontro con l’avversaria. Maltrattato dalla critica e snobbato dal pubblico, il film di DaCosta (che quasi ha confessato di aver avuto solo un minimo ruolo registico) non risulta però così inguardabile come le premesse sembrerebbero suggerire, se si accettano la sua natura di film adolescenziale per un target di analoga età, ossia l’evoluzione da space-opera di una Pazza giornata di vacanza, con l’interferenza para-internettiana di gattini pucciosi (benché debitori di Men in Black) e alieni seriosi da Star Trek TNG. Soprattutto, il film va visto come confluenza massima dell’incipit cinematografico del MCU e della sua evoluzione televisiva da derivazione seriale, e come versione tutta femminile del panorama supereroistico (dalle tre protagoniste all’arcinemica sono tutte donne), come già in parte evidenziato nell’ultimo Ant-Man, con la prevalenza della vespa sulla formica, o della preminenza della Valchiria tra gli Asgardiani Ma il film diventa anche significativo per l’abbassamento del pubblico di riferimento della Marvel e la sua sovrapposizione a quello Disney, per il personaggio adolescente, il tono scanzonato e la costruzione di un gruppo di eroi giovani (dei neo-Goonies con poteri) in quanto eredi della prima generazione cinematografica che va annunciandosi nel sottofinale, con l’interlocuzione della nuova Hawkeye, già introdotta nell’omonima serie, in cui Ms Marvel fa le veci di un nuovo Fury per riunire dei novelli piccoli Vendicatori.

Inoltre, come in tutta questa fase del MCU, non manca l’accenno al multiverso con la deriva della Rambeau in un mondo adiacente (ex Fox, per copyright) in cui imperversano i mutanti degli X-Men, prossimi al confluire nell’universo narrativo classico e introdotti ormai da altri film (l’ultimo Dr. Strange, ad esempio). The Marvels è quindi da intendersi più che altro come un film-ponte, sia dal punto di vista narrativo (ad di là della sua vaga consistenza come episodio autonomo del MCU) che, soprattutto, in quanto indicatore delle tendenze attuali nella definizione dell’ambito supereroistico cinematografico, con la prevalenza dell’elemento femminile, un abbassamento della serietà narrativa (come già negli autoparodistici Thor a firma Waititi) e dell’età anagrafica dello spettatore di riferimento, sempre più giovanile. In fondo, quindi, è un film a suo modo interessante e, a volte, anche divertente.