È
ancora il corpo di Tom Cruise al centro di Edge
of Tomorrow, secondo film di fantascienza in due anni dell’attore, con
l’intermezzo di Jack Reacher peraltro
scritto e diretto dallo sceneggiatore di Liman e nuovo sodale di Cruise che gli
ha affidato la regia del prossimo capitolo di Mission: Impossible. Da Oblivion
il film recupera una visione post-apocalittica successiva ad un’invasione
aliena e la moltiplicazione del corpo dell’eroe, là clonato a sua insaputa e
costretto alla reiterazione di gesti insensati per il mantenimento di uno status quo favorevole agli invasori,
nella versione militaresca di Goundhogday
- Ricomincio da capo di Harold Ramis, Cruise è invece moltiplicato dalla
duplicazione incessante del flusso temporale che si riavvia lungo una medesima
giornata allo scadere della vita del protagonista. Tra le due opere di
fantascienza bellica si insinua Jack
Reacher che, oltre ad erotizzare il corpo di Cruise (col punto di vista
della co-protagonista femminile), lo trasforma in infallibile meccanismo di
combattimento, materia da battaglia in totale sintonia con gli altri due
titoli, sebbene in un registro del tutto realistico e assoggettato alle regole
del thriller.
Edge of Tomorrow è quindi un capitolo successivo del percorso d’autore
dell’attore, la cui figura si impone al di sopra delle qualità registiche dei
singoli estensori della singola opera cinematografica. Liman, infatti, si
limita a coreografare le scene d’azione sfruttando la sedimentazione
nell’immaginario collettivo dei film bellici più riusciti e famosi come Salvate il soldato Ryan (per lo sbarco
sulle coste francesi) o Flags of Our
Fathers (ma anche il primo Captain
America per lo sfruttamento ideologico e propagandistico dell’iconografia
guerresca di un soldato emblematico) offrendo spazio a Cruise per plasmare un
burocrate trasformato suo malgrado dagli eventi nel tipico eroe (sovra)nazionale,
atto al combattimento e fisicamente all’altezza degli scontri, secondo i tipici
standard dei personaggi d’azione dell’interprete. Questi si diverte a giocare
contro l’immagine consueta nelle sequenze iniziali in cui il suo personaggio
tenta invano di evitare il campo di battaglia per evidente codardia.
Se
Brendan Gleeson (il responsabile dell’esercito mondiale) rimanda alla
corporalità di un certo cinema anglosassone e gli ambienti lineari del QG degli
alleati ad un’architettura fascista, gli esoscheletri e la costruzione di una
squadra di burberi commilitoni richiamano il cameratismo di film di Cameron (Aliens, Avatar, Abyss), la scelta
di Emily Blunt sembra voler citare altre pellicole tinteggiate di fantastico,
basate sui viaggi temporali (Looper)
e sulle ripetizioni obbligate alla ricerca della libertà della variabile (I guardiani del destino), mentre il
Cruise iniziale pare quasi il contrappasso del politico destrorso dei Leoni per agnelli e i “mimic” alieni
sembrano una versione tascabile dei Transformers.
Sia
nella commedia di Ramis che nel film di Liman la ripetizione dei medesimi gesti
porta alla loro progressiva trasformazione, con la conseguente evoluzione del protagonsita,
e all’avvicinamento alla perfezione, di una romantica giornata finalmente compiuta
per Bill Murray e alla strategica sconfitta finale dell’avversario per Cruise. L’evoluzione
e il miglioramento di sé tramite la costanza della ripetizione, elementi
vagamente zen e probabilmente debitori del romanzo (poi manga) giapponese di
origine, costringono Edge of Tomorrow
ad una costante graduale modifica del dato acquisito che, registicamente,
portano alla sfida della replica variata con accelerazione degli eventi ed
ellissi degli elementi già visionati e superati secondo una logica videoludica
di scavalcamento di stadi successivi all’interno di un tracciato complessivo in itinere basato sull’abilità del
giocatore che la stessa pratica va affinando.
Ma
è purtroppo la trama ad essere un puro pretesto per la performance di Cruise, con
il dominio del tempo da parte degli alieni e la momentanea perdita del
controllo con l’uccisione di un elemento preminente. Per sorvolare sulle
irragionevolezze della storia non basta l’adeguata costruzione di set parigini
o londinesi, distrutti oppure in procinto di esserlo, o scene di battaglia
piuttosto coinvolgenti poiché lo scetticismo pervade la visione e mina la
partecipazione, facendone un esercizio di stile bellico abbastanza sterile e un
puro veicolo attoriale, sebbene pervaso dall’eco di altre pellicole e di
diversi passati cinematografici. E nella sequenza dei titoli di coda il regista
recupera pedissequamente il finale del primo Bourne, con musica pop elettronica su schemi di armi ad indicare
una vaga firma, oppure, soprattutto, a suggellare, forse inconsapevolmente,
come auto-plagio un film costruito sulla ripetizione che, a sua volta, non fa
che riprendere la trama di un altro film, cangiandone il contesto, con
inconsapevole ironia metatestuale.
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