L’essenza
del cinema di Snyder è l’enfasi perenne, graficamente immortalata in infiniti
ralenti di un gesto su sfondo grigiastro con pulviscolo vario o elementi
atmosferici volanti attorno. La narrazione è quindi soltanto un crescendo di
momenti che si vogliono memorabili in successione. Ma la di là di scene madri,
interpretate come parossismo di effetti digitali e distruzione ambientale,
quando i fili della tela del racconto si fanno più numerosi e intricati il
risultato è una ragnatela confusa che lascia trasparire la filigrana
dell’insofferenza nei confronti della storia.
Pur
spacciato come secondo film dell’uomo di acciaio, la nuova pellicola di Snyder
è in realtà un film su Batman e sullo sguardo umano verso esseri superpotenti
ed incomprensibili. Il regista di riallaccia alla trilogia di Nolan (ancora in
veste di produttore) e ne recupera anche l’immagine iconica dell’eroe con
mantello svolazzante appollaiato di notte su un pinnacolo, ma la ripetizione è
un ridimensionamento grottesco perché Batman non svetta più dell’antenna di un
grattacielo ma dalla gru del porto; il film ne rilegge addirittura la genesi
delle motivazioni dell’eroe per riappropriarsene in un flashback in cui ne rinarra
le origini, ma l’episodio si rivela essere un sogno con tanto di elevazione
mistica di Bruce Wayne bambino da parte di un stormo di pipistrelli. Purtroppo
numerosi incubi affliggono il nuovo Batman e gli spettatori, con tanto di eroe
mascherato con palandrana sopra la calzamaglia (e insetti umanoidi volanti nel
deserto, affiancate da truppe avverse con lo stemmino di Superman) in un
crescendo di grottesco che, per sopperire alla mancanza di lucidità psicologica
del personaggio, ne distrugge la credibilità, ridotta qui all’espressività monocromatica
di Affleck, mentre nei film di Nolan l’eroe rimaneva un grumo quasi indistinto
di rabbia giustizialista e di masochismo.
Nel
far riferimento a L’uomo d’acciaio,
la pellicola cronologicamente precedente, Batman
v Superman critica la distruzione causata dallo scontro tra i kryponiani
che hanno importato la loro guerra sulla Terra sfruttandola come argomento di
accusa nei confronti di Superman. A questo si aggiunge l’evocazione del crollo
delle Torri gemelle, accenni alla guerra americana di “liberazione” in
Medioriente, ad attentati sucidi di kamikaze accecati dalla voglia di rivalsa
che però non si trasformano in vere leve narrative ma quasi in pretesti per
rendere l’azione più spettacolare. Inoltre, pur lamentandosi della devastazione
subita da Metropolis, il film la riproduce e la ripropone da un diverso punto
di vista (terrestre e umano) per poi, successivamente, offrire altra inevitabile
e rinnovata distruzione di città e di dintorni con gli inediti scontri tra
super-esseri.
Nelle
sue due ore e mezza il film tenta anche la carta filosofica e morale con il
dibattito sull’umanità della divinità o sulla intrinseca superiorità dell’uomo;
ma al di là di fumosi dialoghi che non giungono ad alcuna conclusione,
l’argomento, che dovrebbe essere il fulcro della narrazione (e che, pur in un
breve accenno, risulta addirittura meglio sviluppato in Superman Returns di Singer) e la base motivazionale portante della
rabbia di Batman, che vede la Terra diventare passiva arena di battaglia tra
superuomini, rimane grossolanamente relegato a semplice fondale con funzione di
nobilitazione tematica.
Batman
vuole comunque a tutti i costi affrontare Superman per fargli capire e pagare i
danni e le vittime imposti a Metropolis (nella lotta dell’altro film gli ha
anche distrutto il palazzo delle Wayne Enterprises) ma la sua ricerca di
scontro con un titano sembra quasi mosso da gelosia per la lesa maestà nel
ruolo di beniamino del bene. La battaglia, sempre elusa con sovrana calma da
Kal-El, diventa per il terrestre, fumante di rabbia, quasi una gara a chi ha il
mantello più grosso, anche se Wayne deve ovviamente ricorrere alla kryptonite
per indebolire l’avversario.
Il
supercattivo di turno è Lex Luthor il quale, secondo i dettami di Smalville, deve sopravvivere ai traumi imposti
dal padre miliardario ed è incarnato da un insopportabilmente gigionesco Jesse
Eisenberg, del tutto improbabile e in forsennata modalità Maghi del crimine, ed è coadiuvato (a sua insaputa) da un quasi
resuscitato Comandante Zod, trasformato però in Doomsday in salsa Frankenstein.
Questo pseudo-golem diventa una sorta di super-figlio putativo di Luthor (che
aggiunge il suo sangue nel crearlo), tanto per tener vivace il già scalpitante
Edipo. Sarà Lex, che si vuole deus
ex-machina della trama - personaggio dall’ambizione divina temperata però
da una recitazione meccanica - a scatenare i due protagonisti uno contro
l’altro, costruendo le motivazioni alla furia vendicativa del Cavaliere oscuro
e ricattando Superman. Ma le sue argomentazioni formato spot su uomo e Dio non
convincerebbero nemmeno un pubblicitario distratto.
Quell’essere
di nuovo conio, che il film ribattezza Doomsday in ossequio ai fumetti, sembra
solo un altro tentativo della DC di rivaleggiare con la Marvel copiandola, con
un simil-Abominio bruttino e saltellante (che non vola, sebbene kryptoniano), così
come la bat-corazza indossata da Wayne è del tutto analoga (ma senza colori)
alla versione hulkbuster di Iron man. E per anticipare il finale (almeno degli
albi) di Captain America - Civil War,
l’eroe, finalmente riconosciuto e rispettato come tale, muore per mano dell’avversario,
con tanto di funerale (doppio, per la doppia identità) e di visita al cimitero.
Ma, soprattutto, il film spoilera sé stesso uccidendo Superman una prima volta a
pochi minuti di distanza dalla morte data per definitiva con un’esplosione
atomica, per superare gli effetti della quale gli basta rimanere esposto ai
raggi del sole e recuperare vita e corpo. Perché, ovviamente, un’icona non
muore mai.
Per
non perdere troppo terreno nei confronti del Marvel Cinematic Universe, la il
film sfodera anche un team-up di nuovi
supereroi (Aquaman, Flash, Cyborg) i quali, però, si limitano a fare capolino
in modo inconsistente con la promessa di tornare presto (come Justice League) sotto l’egida di Batman
nel ruolo del coach dei metaumani (già
perfettamente schedati sul computer di Luthor, con tanto di simbolo grafico a
mo’ di riconoscimento e marchio). Non avendo superpoteri il Cavaliere oscuro
non può rivaleggiare in potenza o forza con gli altri, prossimi, co-protagonisti,
superandoli soltanto in strategia e in possibilità finanziarie. Wonder Woman, invece,
viene introdotta di persona da questo film, ma come una sorta di spia d’alto
bordo, misteriosa e elusiva sino alla fine, quando indossa l’armatura da
amazzone corazzata a far da preludio ai futuri interventi.
Se
la narrazione non pare interessare Snyder, peraltro incapace di gestirla, è il
film stesso che si perde tra argomentazioni pretestuosamente metafisiche e
morali, usate da fondale per il solito turbinio di effetti digitali, e la
presentazione di personaggi e avventure a venire, esaurendosi infine nel
confronto tra eroi e poi di questi con il rispettivo nemico, in una pellicola
in cui tutti sembrano sempre soltanto comprimari e che affonda nella noia del dèjà-vu e di dialoghi e interpretazioni
irritanti.
Batman v Superman è, soprattutto, tristemente privo di ironia,
nemica dell’enfasi e parte integrante dell’universo Marvel. Se non per una
battuta di Martha Kent che, quando Batman si dichiara amico del figlio, lei
commenta che lo aveva capito dal mantello. E la scelta di Snyder di far
impersonare Thomas Wayne da Jeffrey Dean Morgan che, per il regista, aveva
indossato l’identità del Comico negli Watchmen,
eroe mascherato diventato giustiziere solitario violento e rabbioso (nonché stupratore)
al servizio dell’ordine costituito.
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