Sin dai
titoli di testa la pellicola si definisce come “l'ottavo film di
Quentin Tarantino” e, sulla falsariga di Fellini con Otto
e ½,
si suggerisce come un metafilm autoreferenziale per il regista che,
invece di citare, come sempre fatto in precedenza, i modelli a lui
cari, si cimenta nell'arduo compito dell'autocitazione. Benché si
inauguri con inquadrature in campo lungo, dominate dalla musica di
Morricone e dalla neve che le imbianca, l'apparenza di normalità
classica del film è presto bandita dalla reclusione dell'azione
nella locanda in cui tutto si svolge e gli otto piccoli indiani, per
tacer degli altri, cadranno uno ad uno. La stessa partitura
originale, premiata con un meritato Oscar, non fa che ribadire,
nell'eco sonora di tutti gli altri lavori del compositore, la
compresenza di una moltitudine di generi cinematografici in un
western atipico che, a sua volta, si diverte a rammentare, se non in
musica, altri film, anche se tutti riconducibili ad un unico autore.
Proprio rinunciando alla presenza di brani pop e rock o apporti da
altre colonne sonore su cui sbizzarrirsi con accensioni ritmiche o
cromatiche, Tarantino rinuncia ad una delle caratteristiche
prevalenti e distintive del suo cinema: così facendo sposta la
caratterizzazione e la riconoscibilità sul piano del riferimento
alla propria cinematografia, ormai corposa e ben identificabile.
Anche questo
film può essere, infine, catalogato come divertissement
macabro come gli altri suoi, con esplosioni di sangue e di organi di
spudorata evidenza, inseriti in un gioco al massacro tra personaggi
confinati in un perenne stallo alla messicana, stigmatizzato sin dal
primo film, Le iene,
con un analogo huis-clos
assassino. Del western rimane l'eco di una questione razziale
culturale, evidenziata nel precedente Django
Unchained, e dal pretesto dei cacciatori di
taglie che giustifica l'ambientazione (assieme alle memorie della
Guerra Civile), mentre la presenza di un assassino e traditore tra i
presenti è una costante dei suoi film. Tim Roth, Kurt Russel,
Michael Madsen e l'immancabile Samuel J. Jackson sono citazioni
viventi degli altri film del regista, mentre una trama di vendetta
soggiace all'azione per manifestarsi nel finale e, uno dopo l'altro,
i papabili protagonisti vengono impietosamente falcidiati. La
narrazione sembra stabilmente ancorata al presente e a una cronologia
ordinata, ma saranno solo dei salti temporali con diverse prospettive
del medesimo fatto a mostrare le taciute verità e a spiegare i
dettagli altrimenti inestricabili degli eventi, riportando così ad
una tipicità del racconto tarantiniano con la giustapposizione di
diverse temporalità.
Passando da
Django a Kill
Bill (anche per il venefico bianco del manto
nevoso), attraversando gli altri film addensati attraverso svariati
apporti, The Hateful Eight
rimanda però prevalentemente all'esordio del regista, con un corto
circuito che riunisce inizio e fine (temporanea) di una carriera con
lo spazio vuoto ed astratto di un deposito in disuso ad un
altrettanto soffocante e iperrealistica locanda del Far West, in cui
si giocano i destini dei personaggi e tutte le pistole vengono
puntate contro tutti con gli esiti noti dopo che molte parole sono
state spese per indagare sui rispettivi passati e sondare le
motivazioni di presunti o reali tradimenti dei numerosi bastardi
senza gloria. La consueta melodia degli accenti e del turpiloquio, la
recitazione fuori dal canone dell'immedesimazione, la precisione
delle inquadrature che ricorrono in ogni film si confermano in questo
western sotto assedi, ma si tratta di un assedio interno che ribalta
i cliché dei film con la carovana e le diligenze o alla Fort
Alamo. Il nemico è già all'interno e mina
la narrazione, tanto da interromperla bruscamente mentre si stava
facendo più avvincente, deviando così lo stesso film verso un altro
corso, riportando all'astrattezza scenografica dell'esordio e a una
dimensione quasi esistenziale di nichilismo diffuso e inesorabile.
Alla fine,
dopo aver fatto il punto sul proprio cinema ricapitolandolo, nel loro
ultimo rantolo di voce Tarantino fa dire ai suoi personaggi che tutto
è perduto e che l'unica soddisfazione rimane nell'aver agito
correttamente, almeno nel senso della loro peculiare logica e morale.
Anche il western è terminato assieme al film. Rimane solo il cinema
in quanto puro racconto, un divertissement
macabro che può proseguire imperterrito altrove, con altre e
differenti modalità, inedite quanto consuete.
The
Hateful Eight, onestamente, dopo essersi
presentato altrimenti, come un classico d'antan,
si confessa una frode, un piccolo inganno come quella lettera che
l'ex-schiavo e militare nordista porta con sé, con quella falsa
firma del Presidente Lincoln che l'altro superstite gli chiede di
leggere in extremis e
che gli è servita solo ad aprirgli delle porte, a metterlo in buona
luce con chi di lui naturalmente diffidava. Perché, in fondo, anche
Tarantino si sente un paria a Hollywood e ha bisogno di spacciare il
suo film come un omaggio ai canoni per contrabbandare la sua dolce
ossessione, la sua visione personale di cinema, rifacendo, come si
accusava ingiustamente anche Fellini, sempre lo stesso film.
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