Riprendendo il paradosso temporale su cui l’intera
saga è costruita, l’ultimo Terminator,
saga
cinematografica iniziato
da James Cameron recupera il regista originale in veste di produttore
e si sbarazza dei capitoli successivi al secondo di cui, di fatto,
diventa la continuazione diretta (come
nel
breve corollario televisivo delle
Sarah Connors Chronicles).
Il balzo indietro nel tempo permette quindi di azzerare la
narrazione, eliminare il
terzo capitolo con il definitivo trionfo
delle macchine che sembrava essere stato interrotto dal secondo film,
sorvolare sul IV film (Salvation),
variante dickiana con
robot inconsapevole in pieno impero di Skynet e, soprattutto, sulla
penultima pellicola con i mondi paralleli di realtà alternative
create dai balzi temporali e
molta confusione tra recupero dell’originale e sviluppo autonomo.
Riazzerando quindi il materiale e il
racconto, il film si apre
laddove terminava Il giorno del giudizio
e offre un sottofinale a quella
vicenda: la vendetta delle macchine per la sconfitta di Skynet con la
soppressione del piccolo Connor, figura diventata priva di senso
nella cronologia alterata degli eventi.
Dopo questo scioccante epilogo introduttivo, il
film riparte con nuovi viaggi nel tempo tra cyborg
di metallo liquido e umani potenziati e un assetto di protagoniste
femminili, tra cui la recidiva e ritrovata Linda Hamilton diventata
vendicatrice solitaria che, come la protagonista di Halloween,
è invecchiata ad attendere il ritorno del mostro affinando le
proprie armi ed elaborando
strategie di combattimento. Oltre al rinnovamento di genere, il cast
del film offre anche un cambiamento etnico con una forte presenza di
latino-americani sia nell’androide cacciatore (Gabriel Luna) che
nella nuova protagonista giovane Dani Ramos (Natalia Reyes), con
parte dell’ambientazione in Messico. Colpisce la strana assonanza
della preminenza femminile e latina con
un altro capitolo (terminale?)
di una serie cinematografica iniziata negli
Anni 80, con l’ultimo Rambo,
triste conclusione del pur mesto personaggio di Stallone, tra
ricapitolazione narrativa e capitolazione stilistica nel tronfio di
un film scialbo
e superfluo di cui si
salva solo il sottotitolo: Last Blood.
Pur
con questi aggiornamenti e
una rivisitazione dell’intera trama, restano fermi gli assunti
iniziali: il viaggio nel tempo a cambiare il passato, il governo
delle macchine, l’inseguimento e lo scontro mortale con i
Terminator, la rilettura in positivo del robot interpretato da
Schwartzenegger (e la fornitura di materiale per successive
rielaborazioni).
Della regia grandguignolesca e sarcastica di
Miller sfoderata nei Deadpool
poco rimane, se non l’efficacia action
e l’osservanza scrupolosa del disegno dell’inventore primigenio,
quel James Cameron che, tornato in possesso dei diritti sui film e
sul personaggio, orchestra la ripartenza del franchise
tra fedeltà e innovazione con una nuova eroina futura, una potente
arma biologica tecnologicamente potenziata, due vecchi compagni
d’armi. Tra inseguimenti autostradali, macchinazioni artefatte
con mascheramenti liquidi,
confronti armati muscolari, innumerevoli vittime collaterali,
tragedie familiari e ben più ampi destini in gioco, il film avanza
con stanca efficacia, cercando di sorprendere con le piccole
variazioni sul tema, sulla natura della piccola vittima predestinata,
sull’umanità crescente del cyborg
ingrigito, sull’astio mai represso di Sarah Connor.
E, in fondo, pur volendo andare altrove, non offre
molto più di un mash-up
delle derivazioni dei capitoli oscurati, tra realtà alternative,
antagoniste femminili, protagoniste giovani, androidi emotivamente
consapevoli con aspirazioni umane e
l’inevitabile approssimarsi della singolarità tecnologica. Tutto
cambia per non cambiare, è il paradosso di
film analogico che si nasconde dietro
l’inganno
invisibile
di alterazioni digitali che mistificano
la natura meccanica di un racconto che si ripete all’infinito nel
suo loop
temporale, come gli ingranaggi metallici in azione sotto le mentite
scorze di carne del Terminator
originario.
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