È un percorso limpido
quello che impone ai suoi piccoli personaggi il regista inglese in
1917,
un tragitto cinefilo che parte da Kubrick e Spielberg e attraversa
una campagna britannica trasformata in set teatrale di evidenza
espressionistica. Prendendo
le mosse dalle trincee di Orizzonti di
gloria, inquadrate al livello dello
sguardo dei commilitoni, il percorso dei protagonisti
viene annunciato dal superiore ed enunciato nelle modalità di
Salvate il soldato Ryan:
superare il fronte per raggiungere il fratello di un militare. In
questo caso si tratta di sventare un attacco dell’infido nemico
crucco che finge la ritirata al
fine di salvare un intero
battaglione
inglese,
mentre il percorso, lineare
nel concetto e nei tempi dei falsi piani-sequenza, diventa
frastagliato e complesso, attraversa il giorno e la notte, la
devastazione diversamente declinata degli scenari di guerra, che si
susseguono come i set del
film o ambientazioni differenti in successione e con un grado di
invalicabilità
crescenti.
Il nemico rimane invisibile e quasi astratto,
relegato alle figure distanti e senza volto di cecchini o di piloti
di aereo, di pattuglie avvolte dall’ombra, a sagome che imbracciano
fucili e vociano incomprensibili sillabe. Accompagnati dalla morte e
dalla desolazione, inseguiti dei tedeschi nascosti e da proiettili
imprevedibili, avanzando per mare, aria e acqua, i protagonisti
perdono progressivamente dignità e umanità, smarriscono l’identità
mentre il corpo viene sottoposto alla tortura della sopravvivenza o
all’assurdità
di una morte improvvisa, si spogliano di armi e di voce, perdono
anche il pensiero ricondotti al
solo gesto, intimamente assurdo, dell’avanzare verso il traguardo.
La notte le rovine cittadine si accendono di luci paradossali con
dominanti storiariane (l’ambra di Apocalypse
Now), si illuminano brevemente di colpi
di mortaio che sembrano fuochi d’artificio, per ricadere nel buio
che domina uomini e le rovine di ogni civiltà. Fino a giungere al
candore nebbioso di un prato, con i soldati riuniti ad ascoltare un
canto di preghiera, in un’arcadia impossibile per la vicinanza con
il campo di battaglia e l’immanenza della violenza, l'immancabile
promessa di
morte.
Al di là della bellezza delle immagini, le cui
accensioni cromatiche rimandano al technicolor di Via
col vento, citato successivamente
nell’apparente
enfasi di War
Horse di
Spielberg, in
cui
il punto di vista bressoniano (‘Balthazariano’) sul conflitto
mitiga ogni retorica, nel film spicca la spocchia di Mendes nel
creare un percorso ad ostacoli. I due sconosciuti, attori non noti in
ruoli di nessun rilievo militare, senza grado e quasi privi di nome,
vengono mossi come pedine sacrificabili da un generale e indirizzati
verso un altro graduato per uno scopo che è un McGuffin
drammaturgico, un pretesto per l’attraversamento dell’inferno
delle linee nemiche a palese dimostrazione della evidenza crudele
della guerra. Nel tragitto da Colin Firth a Benedict Cumberbatch, i
divi noti tra cui si muovono i due attori giovani senza fama, c’è
spazio anche per la tappa intermedia del
fratello da avvertire, interpretato dal meno prestigioso (perché
televisivo) ma ben conosciuto Richard Madden, assunto a gloria col
Trono di spade,
come giustificazione drammaturgica del tragitto
fatto ed espediente per ribadirne
la tragicità.
Il resto del film è il percorso irto di ostacoli
per le vittime predestinate, tra allegorie poetiche (il campo
fiorito), espressionismo pittorico (le rovine cittadine), assurdità
fatali (il biplano
che piomba sulla fattoria, con echi hitchcockiani di Intrigo
internazionale, così come nel corpo a
corpo successivo la cui violenta secchezza fa pensare a Sipario
strappato), accenni rossellinani (i
rifugiati tra le macerie, in cerca di vita ad ogni costo) e quanto
cinefilia imponga nel maneggiare l'argomento bellico con dovizia di
cultura e di riferimenti adeguati.
Ma è proprio nello snobismo del far muovere i
piccoli protagonisti da star a star e con la plateale evidenza di un
piano-sequenza forzoso e privo di qualsiasi
valore morale (baziniano), perché digitalizzato e artefatto, quindi
estraneo ad ogni significato di restituzione del reale, che il film
si denuncia come espressione di una volontà di evidenza stilistica
fine a sé stessa. Si tratta di un artificio stilistico manifesto, di
una sottolineatura che diventa evidenziazione per poter spiccare come
conquista artistica e imposizione di senso. Nella sua stessa
costruzione, il film si rivela un gioco a fare l’autore colto, a
cercare di impressionare a tutti i costi nel creare una macchina da
Oscar in tempo per la cerimonia (che gli ha fruttato solo premi
tecnici come effetti speciali e sonoro, oltre alla fotografia
emozionale di Jenkins)
per costruirsi una nuova credibilità dopo le concessioni bondiane al
commercio e al successo.
Eppure sono proprio i due film di 007 (soprattutto
Skyfall,
mentre SPECTRE
dimostra già una certa stanchezza) che danno maggior credito al
regista, mentre questo
suo opus
d’autore sembra solo la versione iper-realistica di un videogioco
di combattimento con livelli da superare, uno sparatutto in
soggettiva straniante in cui l’eroe quasi mai fa
fuoco. Poiché
ormai la maggior parte dei film d’azione sfrutta le possibilità
del piano sequenza impossibile per esaltare la continuità del
movimento, disossando di senso quello del finale di Professione
Reporter o il tempo continuativo e
meditativo di Nodo alla gola
per farsi semplicemente manifesto di possibilità tecnologiche alla
portata di tutti. E per rimanere a Spielberg,
omaggiato da Mendes e tra i produttori di 1917, il suo Tintin
è un rutilante unico piano-sequenza che traduce in animazione la
mobilità del tratto leggero del fumetto (che prosegue idealmente la
rapidità precipitosa e ludica di Indiana
Jones), e le sequenze di Ready
Player One sono una mimesi della
fluidità dei videogiochi nella realtà aumentata del cinema come
immaginario comune (e non il contrario). Ed è quasi ironico che
nell’ultimo Bond con Craig il regista sia diventato Cary Fukunaga,
che si era fatto notare con i piani sequenza implacabili della prima
stagione di True Detective,
passando così dalla tv al cinema, da esecutore a regista e autore.
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