È un film
del tutto derivativo Underwater,
che manipola materiale preesistente in un nuovo ma non originale
assemblaggio per scolpire una prova d’attrice e guardarne il corpo
muoversi in diversi contesti, in sottoveste o dentro ingombranti mute
da palombari tecnologici. Partendo da un contesto del tutto analogo a
The
Abyss,
contaminato con il film catastrofe con mostri di Cloverfield,
l’andamento slasher
di Alien,
da cui mutua anche l’eroina (e i suoi succinti abiti, qui iniziali
e là finali) dalla femminilità nascosta, assieme al tipico gioco al
massacro dei ‘10 piccoli indiani’ in un andamento cronologico a
seguire le dinamiche di sopravvivenza di
un
gruppo sempre più assottigliato, il film è tutto nello sguardo
Norah, interpretata da Kristen Stewart, si apre e chiude con l’occhio
di lei che osserva il mondo e quello che sta le accadendo.
Spettatrice
e attrice di un disaster
movie
in cui è costretta ad avanzare costantemente per non rimanere
intrappolata da un’immaginario troppo soffocante o da una
situazione già vista col pretesto di salvarsi la vita, la Stewart
avanza indomita quasi senza cambiare espressione, attonita e
coraggiosa insieme, eppure convincente in un ruolo sommesso in cui
rifiuta di assoggettarsi ad una condizione incontenibile. Privo di
prolisse introduzioni o sottofinali esplicativi, relegati alle sigle
iniziali e finali con brevi trafiletti di giornali e notizie a larga
diffusione, la pellicola di Eubank si sostanzia nell’azione, che
racconta seguendo la sua protagonista, gettata nella mischia action
dopo pellicole d’autore e di ricerca, guardandola reagire e
combattere le avversità della trama.
In un mondo
sommerso di orrori inauditi, con una narrazione tutta la presente,
Norah è l’unico personaggio a cui viene concessa
la libertà di una scelta sul proprio futuro. Questa opzione, operata
in prima persona, è basata su un passato inesplorato dalle
immagini
ma enunciato con
poche parole e palesato da scarni gesti, suggerito da un pendente al
collo e da un ricordo dolente (sempre represso dal personaggio come
dal film), i
quali
però condizionano l’andamento del finale privando il
racconto
di un esito più prevedibile. Ed è anche in questo scarto di
orgoglio e tenacia che si sottolinea la preminenza di quella figura
protagonista, pronta ancora a guardare quando la luce si spegne, così
come lo stesso film si era acceso sul suo occhio riflesso nello
specchio, distratto da altri pensieri e da un altrove lontano mentre
l'improbabile invadeva lo schermo e trascinava trama
e personaggio nel suo tragitto a tappe forzate verso la conclusione.
Lo sguardo
del regista e della sua protagonista non è quello dell’innocenza e
della sorpresa di fronte all’ineffabile, ma della risoluzione a
giungere a destinazione, a chiudere un racconto (o una vita) dandogli
un senso nuovo, anche se tutto sembra già visto. In questa cinefilia
applicata, il film trova una sua strada, assieme al personaggio e
alla sua interprete, che decide dove arrivare e perché avendo
valutato tutte le altre opzioni, dopo aver vissuto altre vite in
differenti contesti come in altre pellicole e scegliendo di farsi
autore di sé. Così come il regista
decide di muoversi in mezzo a scorie di déjà-vu
e a sottrarsi alla ripetizione divertita di un normale postmodernismo
per farsi narrazione veloce e sintetica, senza nostalgia ma guardando
soltanto ad una coerenza da conquistarsi, Underwater
è un
film
sullo sguardo della sua protagonista, che si fa attrice action
senza rinunciare al suo passato di interprete esigente, difficile e
diffidente, costruendo il personaggio in base a quelle scelte e
trasformando la pellicola stessa nel
manifesto di una possibile politique
des acteurs.
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