È sempre la
famiglia la centro degli interessi di James Gray, regista colto e
letterario di film tormentati e silenziosi e dai protagonisti
arrovellati
e incerti. E anche tra le stelle, tra i pianeti del sistema solare, è
ancora il legame familiare, l’affetto inespresso o negato, a
tessere la rete che imbriglia i personaggi in un tessuto di dolore e
ansia, di speranze e rancori, di silenzio.
Dei
raggi stano colpendo la Terra e rischiano di danneggiare strutture e
atmosfera, tanto da dover organizzare una missione esplorativa di cui
fa parte anche Roy McBride, scelto perché le anomalie sembrano
originarsi da una struttura risalente ad una vecchia missione di cui
faceva parte il padre, morto da eroe decenni prima.
Il
regista americano racconta così l’odissea interplanetaria di un
uomo alla ricerca delle sue radici e dell’ultimo saluto a un
passato che non si è mai trasformato in futuro e che lo ha
circondato di mesta solitudine. Vissuto nell’ombra di una fama
derivata e di un eroe che diventa d'improvviso un pericolo,
l’astronauta di seconda generazione McBride ha trovato nel silenzio
e nel gelo dello spazio una compagnia migliore della propria e di
quella offerta dai suoi consimili, e offre a Brad Pitt
un’interpretazione in totale sottrazione, ammantata di tristezza e
rassegnazione, giocata con lo sguardo e con rughe altrove nascoste.
Nel
viaggio da e verso casa, sia intesa come il pianeta che come il
residuo di famiglia ancora in vita, l’astronauta non troverà
alcuna felicità né sollievo, ma la necessità di portare a
compimento la missione e svolgere sino al termine il proprio compito
di piccolo operaio di un maggiore ingranaggio. Il mondo attorno a lui
rimane confuso, non definito appieno e forse nemmeno compreso nella
sua interezza, lasciato ai margini perché poco interessante per un
protagonista che si lascia vivere e poco controlla, tra pianeti
minacciati, satelliti contesi, pirati spaziali e tradimenti mortali.
Grey
priva lo sguardo di Pitt della sua ben nota impertinenza e ironia,
rievocando una certa emotività da cercare sulla superficie delle
immagini e dei corpi, come in Tree
of Life
di Malick. La cinefilia di primo grado del regista gli impone,
inoltre, di sintetizzare omaggi e citazioni all’interno del film
stesso, materiale grezzo da immergere in un contesto originale, senza
quell’ansia del riciclo manifesto che abbonda tra i coetanei
colleghi, mantenendo la cadenza della classicità. Così Grey spazia
dagli anziani Cowboy siderali di Eastwood (recuperando Donald
Sutherland) per intercettare l’abisso esistenziale di Nolan (ma
senza i filosofici e paradossali sbalzi spazio-temporali), guardando
alla sporcizia dell’usura delle strutture spaziali di Alien
e di Atmosfera
Zero
con reminiscenze palesi di Gravity
e negli occhi le accensioni monocromatiche del Blade
Runner
di Villeneuve, mentre cerca la gravità di Kubrick, sebbene non abbia
l’ambizione di superarlo o di imitarlo. Seppur lenti nell’andamento
generale, i film di Grey non disdegnano sprazzi d’azione, di solito
di grandissima fattura, come l’inseguimento lunare di Ad
Astra
che rimanda a quello sotto la pioggia dei Padroni
della notte,
che già omaggiava Friedkin e Yates e, con loro, il periodo della New
Hollywood che sapeva tenere insieme spettacolarità e autorialità,
cinema inteso insieme come arte e come industria.
Cugino
lontano del Neil Armstrong di First
man,
con la medesima rassegnata risolutezza capace di qualsiasi
sacrificio, il McBride di Pitt si avvicina alla laconicità di
Gosling e i due film condividono una medesima visione sacrificale del
viaggio spaziale e del ruolo dell’astronauta, così come un
naturalismo degli effetti speciali che rendono del tutto credibili
situazioni e ambientazioni, sapendo che nello spazio nessuno può
sentirti piangere.
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